Convergenza sociale problematica, specie in Italia

Un’analisi dettagliata della Commissione individua i Paesi in maggiore difficoltà

Da un’analisi approfondita sulla convergenza sociale nell’Ue, svolta dai servizi della Commissione europea, emerge una situazione caratterizzata da «rischi potenziali» per quanto riguarda le competenze, soprattutto in relazione alle transizioni verde e digitale, il mercato del lavoro e la formazione, le diseguaglianze di reddito e la povertà. Problema che riguarda prevalentemente sette Stati membri: Bulgaria, Estonia, Ungheria, Italia, Lituania, Romania e Spagna. Su questi Paesi la Commissione ha quindi svolto un’analisi più dettagliata, basata su un insieme di prove quantitative e qualitative, al fine di individuare le maggiori problematicità.

La situazione nei sette Stati membri a rischio

L’area dell’inclusione sociale è presa particolarmente in considerazione, perché livelli elevati di povertà ed esclusione incidono in modo rilevante sulla convergenza sociale. In quasi tutti i sette Paesi analizzati, osserva la Commissione, il tasso complessivo di rischio di povertà o di esclusione sociale, nonché l’impatto dei trasferimenti sociali sulla riduzione della povertà «indicano sfide da affrontare» e «richiedono molta attenzione», al fine di garantire sistemi di protezione e inclusione sociale «adeguati e sostenibili». Altra problematicità attiene alle competenze e all’istruzione, con quattro Paesi su sette che presentano livelli inadeguati di istruzione e formazione collegati all’abbandono scolastico precoce. I dati scolastici mostrano un calo delle competenze di base, in particolare tra gli studenti svantaggiati, il che rappresenta un rischio perché «può ostacolare l’ulteriore acquisizione di competenze nel corso della vita». Anche per i mercati del lavoro l’analisi mostra la «necessità di fare di più» per integrare efficacemente i gruppi ancora sottorappresentati, cioè persone con disabilità, donne, giovani, lavoratori più anziani, persone poco qualificate, rom e persone in altre situazioni vulnerabili. Secondo la Commissione, nei sette Paesi serve una risposta forte per garantire «un’economia sociale di mercato resiliente». L’analisi delle risposte politiche intraprese o pianificate dalle autorità nazionali evidenzia infatti come le azioni ideate non siano sempre sufficienti per affrontare pienamente le criticità individuate, oppure non attuate adeguatamente.

Italia: bassi livelli salariali e di occupazione

Uno dei sette Stati membri sotto osservazione della Commissione è l’Italia, che esce piuttosto malconcia dall’analisi, in stato di arretratezza in vari ambiti. Ad esempio per i bassi tassi di occupazione e attività, per l’elevata disoccupazione di lunga durata, per la povertà lavorativa legata a bassi salari e precarietà del lavoro, o ancora per l’esclusione dal mercato del lavoro di donne, giovani e persone poco qualificate. Nel 2023 il tasso di occupazione era uno dei più bassi nell’Ue (66,3% rispetto alla media europea del 75,4%). Particolarmente basso il tasso di occupazione femminile, al 56,5% nel 2023 rispetto a un tasso medio nell’Ue del 70,2%, con uno dei divari di genere più ampi (19,5 punti percentuali contro 10,3 punti percentuali nell’Ue) e nessuna convergenza negli ultimi decenni. Il divario occupazionale di genere, osserva la Commissione, è «tra l’altro causato da un’offerta limitata di servizi di educazione e cura della prima infanzia». Anche nella fascia di età 25-34 anni il tasso di occupazione (66,1%) è tra i più bassi dell’Ue. La quota di giovani tra i 15 e i 29 anni né occupati né studenti né in formazione (Neet, 16,1% nel 2023) rimane una delle più alte nell’Ue, ed è più elevata tra le giovani donne e i cittadini stranieri. Così come il tasso di occupazione dei neolaureati, seppur migliore rispetto a chi non ha istruzione terziaria, con il 65,2% è tra i più bassi dell’Ue (media dell’82,4%) e «segnala difficoltà nella transizione scuola-lavoro». Per quanto concerne la disoccupazione poi, nonostante un miglioramento del tasso generale, la quota dei disoccupati a lungo termine è doppia rispetto alla media dell’Ue e molto più elevata è anche quella a lunghissimo termine. Colpisce il fatto che, mentre nell’Ue l’incidenza dei contratti a tempo determinato è diminuita, in Italia questa tipologia di contratti è in aumento e con una quota del 16,5% (rispetto a una media del 12,9% nell’Ue) è tra le più alte a livello europeo. Se a ciò si associa una crescita dei salari nominali che non ha permesso di recuperare le perdite di potere d’acquisto causate dalle recenti crisi, che in dieci anni tale crescita è stata la metà circa di quella media dell’Ue (12% rispetto al 23%) e che i salari reali sono diminuiti di circa il 2,3% nel 2023 e del 4% nel 2022, allora si può comprendere il grave stallo italiano in termini di contrasto alla povertà.

Inadeguata la risposta italiana nella lotta alla povertà

«La prevalenza del lavoro a bassa retribuzione e a bassa intensità aiuta a spiegare perché, nonostante i miglioramenti dei tassi di occupazione dopo la pandemia, la povertà non è diminuita in modo significativo» in Italia, osserva la Commissione. Infatti, il tasso di rischio povertà in Italia per gli occupati è tra i più alti dell’Ue (11,5% contro l’8,5% nel 2022), particolarmente elevato per i cittadini extracomunitari e per le persone poco qualificate. Tra i lavoratori part-time, il 19,9% è a rischio di povertà rispetto al 13,5% nell’Ue, mentre per i dipendenti a tempo determinato tali quote sono rispettivamente del 16,2% e del 12,2%.

Così, la quota di persone a rischio di povertà o esclusione sociale è aumentata in Italia durante la crisi pandemica, salendo al 24,4% nel 2022 rispetto a una media europea del 21,6%. Inoltre, la disuguaglianza di reddito è tra le più elevate dell’Ue: il reddito totale del 20% più ricco della popolazione è 5,6 volte superiore a quello del 20% più povero in Italia, a fronte di 4,7 volte nell’Ue. A fronte di tutto ciò, il recente passaggio dal Reddito di Cittadinanza all’Assegno di Inclusione, voluto dall’attuale maggioranza di governo e che limita l’accesso solo alle famiglie appartenenti a specifiche categorie demografiche, «riduce significativamente la copertura del reddito minimo» osserva la Commissione, «riducendo del 40% il numero delle famiglie beneficiarie e del 66% la copertura tra le famiglie con cittadinanza diversa».

Per cui, secondo l’analisi della Commissione, solo con «maggiori sforzi» l’Italia potrà «affrontare pienamente le sfide che il Paese si trova ad affrontare in relazione al mercato del lavoro, alla protezione sociale e all’inclusione, così come all’istruzione e alle competenze».