Ipocrisia e “confusione” su pace e guerra

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Dal conflitto in Ucraina alla questione palestinese, Paesi dell’Ue in ordine sparso

L’Ue fatica a trovare una posizione comune sulle complesse e delicate controversie internazionali che stanno causando i due principali conflitti in corso, cioè l’invasione russa dell’Ucraina e quella israeliana della Striscia di Gaza. Gli Stati membri manifestano posizioni differenti, in alcuni casi contrastanti, uniti solo nella volontà di riarmo e nell’assenza di qualsiasi azione diplomatica di mediazione alla ricerca di soluzioni di pace. Nei due anni di conflitto in Ucraina, la posizione dell’Ue e dei suoi Stati membri è stata caratterizzata da una escalation militare evidente e da nessuna concreta iniziativa di pace. La crescita del coinvolgimento dell’Ue è stata accompagnata da una costante ipocrisia nel cercare di camuffare in peacebuilding ciò che invece è un impegno militare a tutti gli effetti. Così, all’inizio del conflitto si discuteva “se” inviare armamenti all’Ucraina, optando per il compromesso di fornire il supporto finanziario per l’acquisto e dedicando paradossalmente a tale scopo una linea di finanziamento denominata Strumento europeo per la pace. Poi l’Ue e i suoi Stati membri hanno deciso che si potevano inviare direttamente armamenti, ponendo però la condizione che fossero utilizzati “solo per difesa”, come se fosse possibile distinguerne realmente le modalità di utilizzo. Ora l’ipocrisia cresce, insieme al pericolo di estensione del conflitto, con una nuova formula secondo cui gli armamenti forniti all’Ucraina dai Paesi europei possono essere impiegati anche in azioni di attacco in territorio russo, ma “solo per colpire obiettivi militari” da cui partono gli attacchi russi. «Per legittima difesa, ma in territorio russo» ha dichiarato l’Alto rappresentante della Politica estera dell’Ue, Josep Borrell, spiegando che «si tratta di un’azione legittima ai sensi del diritto internazionale, quando viene utilizzata in modo proporzionato», senza però accennare al fatto che ciò potrebbe innescare un’escalation del conflitto in cui la “proporzione” sarebbe difficilmente definibile. Il tutto è demandato ai singoli Stati membri, perché ha aggiunto Borrell «è chiaro che la decisione spetta a ogni singolo Stato membro di assumersi la propria responsabilità nel farlo o meno. Alcune settimane fa certi Stati membri ritenevano che ciò non fosse appropriato, mentre ora hanno deciso di farlo. Forse altri continuano ad avere riluttanza a prendere questa decisione. Nessuno sarà costretto ad agire in un modo o nell’altro». Quasi come se la guerra fosse un’opzione e le sue conseguenze non coinvolgessero comunque tutti. E, oltretutto, la sua intensità fosse controllabile indirettamente, almeno secondo il presidente francese Emmanuel Macron, che presentando una mappa indicante le basi russe da cui partono gli attacchi all’Ucraina ha detto: «Non dovremmo consentire di colpire obiettivi diversi da quelli, intendo naturalmente obiettivi civili o altri obiettivi militari». Equilibrismo confermato in qualche modo dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, secondo cui «bisogna dire chiaramente che se l’Ucraina viene attaccata, può difendersi». Si tratta di posizioni in linea con quanto affermato dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e approvato dall’Assemblea parlamentare della stessa Nato, seppur non all’unanimità (24 Paesi su 32), nella Dichiarazione 489 intitolata “Restare con l’Ucraina fino alla vittoria”. L’Assemblea «esorta i governi e i parlamenti dell’Alleanza del Nord Atlantico» ad «affermare chiaramente che il loro obiettivo strategico è la vittoria dell’Ucraina e a fare urgentemente un passo avanti per accelerare la fornitura dell’assistenza militare di cui l’Ucraina ha bisogno per vincere», anche «eliminando alcune restrizioni all’uso di armi fornite dagli alleati della Nato per colpire obiettivi legittimi in Russia». In apertura dell’Assemblea, Stoltenberg ha dichiarato che «l’obiettivo principale della Nato non è combattere la guerra. Dovrebbe prevenire la guerra. L’obiettivo della Nato è la pace», mentre i rappresentanti del Regno Unito hanno detto: «Non ha senso che non si possano usare i missili contro la Russia mentre la Russia sta sparando contro l’Ucraina». Idee piuttosto confuse su “pace” e “guerra”, ma soprattutto una escalation militare le cui conseguenze sono inimmaginabili.

Riconoscimento dello Stato palestinese

Altra delicata e drammatica questione internazionale è quella relativa al conflitto israelo-palestinese, e anche in questo caso i Paesi dell’Ue non seguono una linea comune. Pochi giorni fa, infatti, i due Stati membri Spagna e Irlanda e un Paese europeo che non fa parte dell’Ue, ma ha comunque con essa un forte rapporto di collaborazione, la Norvegia, hanno formalizzato il riconoscimento ufficiale dello Stato palestinese. «Non si tratta solo di una questione di giustizia storica rispetto alle legittime aspirazioni del popolo palestinese, ma dell’unico modo per andare verso l’unica soluzione possibile per realizzare un futuro di pace: quello di uno Stato palestinese che conviva accanto allo Stato di Israele in pace e sicurezza» ha detto il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez. Obiettivo simile quello espresso dal primo ministro irlandese, Simon Harris, secondo il quale «credere a una soluzione a due Stati è l’unico modo per Israele e Palestina di vivere fianco a fianco in pace e sicurezza», invitando inoltre il premier israeliano Benjamin Netanyahu ad «ascoltare il mondo e porre fine alla catastrofe umanitaria a Gaza». La recente decisione dei tre Stati fa salire a undici il numero di Paesi europei che hanno finora riconosciuto lo Stato di Palestina: i nove Stati membri dell’Ue Spagna, Irlanda, Svezia (recentemente dubbiosa), Bulgaria, Cipro, Ungheria (ora meno favorevole), Polonia, Romania, Slovacchia e i due Paesi non membri dell’Ue Norvegia e Islanda. C’è poi Malta che riconosce il diritto dei palestinesi alla statualità ma non formalmente lo Stato di Palestina, mentre la Slovenia e il Belgio si sono detti favorevoli al riconoscimento.

La questione è controversa non solo in Europa, dal momento che a livello di Organizzazione delle Nazioni Unite tre quarti dei Paesi, cioè 145 su 193, riconoscono lo Stato di Palestina, ma d’altro canto non lo riconoscono Paesi importanti come Stati Uniti e Canada, Australia e Giappone e la maggior parte dei Paesi europei. Lo scorso 10 maggio l’Assemblea generale dell’Onu ha votato una risoluzione secondo cui la Palestina «è qualificata a diventare Stato membro», testo approvato a larghissima maggioranza con 143 voti favorevoli, 25 astensioni (tra le quali l’Italia) e solo 9 voti contrari: Stati Uniti, Argentina, Repubblica Ceca, Ungheria, Israele, Stati Federati di Micronesia, Nauru, Palau e Papua Nuova Guinea.