Nessun accordo sull’orario di lavoro

Giugno 2009

Per la prima volta i due rami legislativi dell’Ue, il Parlamento e il Consiglio, non sono riusciti a trovato un accordo, neanche attraverso un ultimo tentativo di un comitato di conciliazione, facendo così saltare la trattativa sulla proposta di direttiva riguardante l’orario di lavoro e rimandando tutto al prossimo Parlamento e alla prossima Commissione che saranno costituiti dopo le elezioni europee di giugno.
Il 28 aprile scorso è infatti ufficialmente fallito il negoziato di conciliazione tra Parlamento europeo e Consiglio dell’Ue sulla revisione della direttiva, procedura di negoziazione apertasi automaticamente dopo le due votazioni contrastanti operate da Consiglio e Parlamento europeo su questo tema. Tre le questioni principali sulle quali non è stato trovato un compromesso: le deroghe alle 48 ore massime di lavoro settimanali, la definizione del tempo di guardia e i contratti multipli. Sulle 48 ore, l’Europarlamento avrebbe accettato la possibilità di deroga solo in casi straordinari ed eccezionali, mentre molti Stati membri dell’Ue vogliono continuare ad avere massima libertà e hanno quindi rifiutato ogni tentativo di compromesso; sul tempo di guardia, il Parlamento ha insistito affinché sia considerato tempo di lavoro, contro il parere di vari governi europei; mentre per quanto riguarda i contratti multipli, secondo gli europarlamentari l’orario complessivo di lavoro deve essere calcolato sul lavoratore e non sul singolo contratto.
Ora, con il fallimento della procedura di conciliazione, la discussione è rimandata alla prossima legislatura del Parlamento europeo e alla futura Commissione che dovrà formulare una nuova proposta di revisione. Ciò significa che si dovrà riprendere tutto l’iter negoziale tra le istituzioni europee e, pertanto, il fallimento della procedura di conciliazione non mette certo al riparo da modifiche peggiorative della direttiva.
Quella dell’orario di lavoro è infatti una questione complessa e delicata, che assume un importante significato anche simbolico in un momento di crisi economico-finanziaria che si ripercuote sull’economia reale e sui mercati del lavoro europei.

un lungo processo
Fin dal 1990 la Commissione europea è intervenuta sulla materia per formulare una normativa comunitaria, poi scaturita nelle direttive 104 del 1993 e 88 del 2003. La direttiva del 2003 stabiliva requisiti minimi in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, tra l’altro, in relazione ai periodi di riposo quotidiano e settimanale, di pausa, di durata massima settimanale del lavoro e di ferie annuali, nonché relativamente a taluni aspetti del lavoro notturno, del lavoro a turni e del ritmo di lavoro. La stessa direttiva prevedeva una clausola di revisione della normativa, così dal dicembre del 2003 è iniziato un lungo processo ora conclusosi senza alcun risultato utile. Un processo durante il quale, oltre alle profonde divergenze di interessi tra le organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro, sono emersi forti contrasti tra le istituzioni europee. Da un lato Commissione e Consiglio favorevoli alla clausola che prevede la possibilità di estendere l’orario di lavoro settimanale da 48 ore fino a 60-65 ore e a non considerare i tempi di guardia come tempi di lavoro, dall’altro il Parlamento fermamente contrario a questa impostazione e schierato in difesa dei diritti dei lavoratori, in particolare rispetto alla salute e sicurezza e alla necessità di conciliare la vita lavorativa con quella privata-familiare. Contrasti che hanno portato a due proposte della Commissione, vari emendamenti dell’Europarlamento e una posizione comune del Consiglio definita solo nel settembre 2008, con non poche difficoltà: avevano infatti votato contro Spagna e Grecia, mentre Belgio, Cipro, Malta, Portogallo e Ungheria si erano astenuti.

bocciatura
dell’Europarlamento
L’ultima proposta della Commissione adottata dal Consiglio, giunta al Parlamento europeo per il voto in seconda lettura, è stata decisamente bocciata prima dalla commissione europarlamentare Occupazione e Affari sociali (5 novembre 2008) e poi dall’intera Aula (17 dicembre 2008), con l’approvazione di una relazione elaborata sulla materia dal deputato Alejandro Cercas (Pse). L’Europarlamento ha infatti riaffermato il limite delle 48 ore lavorative settimanali, concedendo solo un periodo transitorio di tre anni agli Stati membri dell’Ue durante i quali è ancora possibile utilizzare la cosiddetta clausola dell’opt-out che consente di derogare al limite.
Ottenuto e adottato inizialmente dal Regno Unito per consentire la settimana “lunga” ai lavoratori, l’opt-out si è poi via via esteso a ben 15 Stati membri, diventando questione europea a tutti gli effetti: oltre al Regno Unito anche Bulgaria, Cipro, Estonia e Malta vi ricorrono in tutti i settori lavorativi, mentre Repubblica Ceca, Francia, Germania, Ungheria, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Spagna lo consentono solo nei settori in cui vi è un esteso ricorso ai periodi di guardia.

mobilitazione
sociale e sindacale

Ora però, in un momento di recessione economica, con milioni di disoccupati e cassintegrati, la richiesta dei governi di consentire alle aziende di prolungare il tempo di lavoro dei loro dipendenti fino a 60 e più ore settimanali pareva quanto meno fuori luogo. O meglio, un tentativo di dare il via libera a straordinari detassati e a un ulteriore impoverimento del mercato del lavoro, con ripercussioni dannose per quanto concerne i già precari livelli di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Così, lavoratori e organizzazioni sindacali europee si sono mobilitati a difesa dei diritti fondamentali, che vanno da salari dignitosi al diritto di informazione e consultazione, dalla tutela della contrattazione collettiva alla parità di trattamento per i lavoratori interinali fino al rispetto dei limiti di orario di lavoro che garantiscano salute, sicurezza e giusto equilibrio tra tempo di lavoro, vita sociale e familiare.
Commentando il fallimento della trattativa tra le istituzioni europee, il relatore europarlamentare Alejandro Cercas ha dichiarato: «È molto triste, ma un accordo al ribasso sarebbe stato peggio per i lavoratori. Così abbiamo lasciato la situazione aperta per il futuro, speriamo di trovare una soluzione con il nuovo Parlamento e la nuova Commissione». Certo, serviranno nuovi Parlamento e Commissione all’altezza della situazione: un motivo in più che dovrebbe spingere i cittadini europei ad andare a votare e farlo con cognizione di causa affinché si eviti una regressione e sia salvaguardato quel po’ di modello sociale europeo ancora esistente. Che anzi andrebbe rilanciato ed esteso, perché a fronte della legittima questione dell’orario di lavoro per coloro che sono impiegati nelle forme contrattuali “tradizionali”, esistono milioni di lavoratori giovani e meno giovani nell’Ue (e quindi anche nell’Italia reale, checché ne dicano gli autori della “fiction” governativa) che in tutti i settori di impiego si trovano sempre più a lavorare molto, con poche garanzie e tutele, con salari bassi e precari, senza o quasi ammortizzatori sociali e, quel che è peggio, privati di un futuro dignitoso.

I SINDACATI EUROPEI APPLAUDONO L’EUROPARLAMENTO

Nonostante il mancato raggiungimento di un accordo tra il Parlamento e il Consiglio sulla revisione della direttiva sull’orario di lavoro, la Confederazione europea dei sindacati (Ces) continuerà a battersi per uno standard minimo adeguato sull’orario di lavoro in Europa.
Il segretario generale della Ces, John Monks, ha affermato che questa non è stata sicuramente una vittoria per l’Europa sociale ed ha deplorato il fatto che non sia stato possibile raggiungere un accordo che avrebbe significato un vero progresso sociale in Europa.
Nella direttiva la rinuncia individuale avrebbe dovuto essere riconosciuta come un’eccezione temporanea che non ha il proprio posto in una legislazione sana e sicura. Inoltre la situazione per milioni di lavoratori europei che lavorano a turni in settori come la sanità, dovrebbe essere salvaguardata in maniera corretta. Ad ogni modo, il segretario è d’accordo con il Parlamento nel sostenere che, sfortunatamente, un accordo era impossibile. Un gruppo di Paesi si è talmente assuefatto alla possibilità di rinuncia individuale, che ora lo considerano un diritto fondamentale da mantenere per sempre. Questo è inaccettabile per la maggioranza dei parlamentari europei e per il movimento sindacale.
Il Parlamento ha giocato un ruolo essenziale, con il sostegno della Ces, nell’impedire l’indebolimento di una parte importante della legislazione sociale europea.
La sfida ora è assicurarsi che la direttiva sull’orario di lavoro possa svolgere il suo ruolo chiave nel fornire degli standard minimi sull’orario di lavoro in Europa. Questo è particolarmente importante in un periodo di crisi economica e in un mondo globalizzato. La Ces, dal canto suo, continuerà a battersi per questo con i suoi membri, sia a livello nazionale che a livello europeo.

INFORMAZIONI: http://www.etuc.org

ADOTTATA LA NUOVA DIRETTIVA SUI COMITATI AZIENDALI EUROPEI

In seguito all’accordo raggiunto con il Parlamento europeo, il Consiglio dell’Ue ha adottato la nuova direttiva europea riguardante i Comitati aziendali europei (Cae), completando così un processo di revisione legislativa resosi ormai necessario dopo 15 anni.
La nuova direttiva rafforza i diritti di informazione e consultazione dei lavoratori, aspetto particolarmente importante nell’attuale periodo di crisi caratterizzato da numerosi casi di ristrutturazioni e delocalizzazioni aziendali.
L’iter istituzionale di revisione della direttiva del 1994 è stato avviato nel luglio 2008 con la presentazione di una proposta da parte della Commissione europea, ma tutto il processo è iniziato molto prima ed è sempre accompagnato da una forte pressione dei sindacati europei, affinché si aggiornasse la legislazione europea relativa a questi organi di rappresentanza dei lavoratori alla situazione venutasi a creare negli ultimi anni. Attraverso i Cae, infatti, i lavoratori sono informati e consultati dalle imprese su ogni decisione di rilievo a livello europeo che potrebbe avere effetto sull’occupazione o sulle condizioni di lavoro.
Circa 2300 imprese che occupano un totale di 24 milioni di lavoratori rientrano nelle competenze della legislazione sui Cae; la maggior parte di queste imprese ha la sede principale in Germania, Stati Uniti (per le attività in Europa), Regno Unito e Francia, ma con attività e dipendenti in tutta Europa. In 860 di queste imprese transnazionali sono operativi dei Cae, che coinvolgono circa 20.000 rappresentanti di circa 15,6 milioni di lavoratori complessivi.
Soddisfazione per la nuova direttiva è stata espressa dalla Confederazione europea dei sindacati (Ces), secondo cui riconoscere pienamente il ruolo dei Cae in questo periodo di crisi dei mercati occupazionali costituisce una «risposta corretta»». Secondo il segretario generale aggiunto della Ces, Reiner Hoffmann, «i lavoratori necessitano di effettivi diritti all’informazione e alla consultazione, che danno loro l’opportunità di esprimersi per tempo su eventuali cambiamenti strutturali delle imprese garantendo soluzioni socialmente accettabili e direzioni sostenibili». In particolare, la Ces ritiene importante il miglioramento della definizione dei diritti di informazione e consultazione in un contesto transnazionale, «perché in questo modo è rafforzato il dialogo transnazionale tra lavoratori e imprenditori».

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