Antidiscriminazione
organizzazioni sociali e sindacali unite contro le discriminazioni
La popolazione lavorativa sta cambiando in tutta Europa. Una delle caratteristiche più evidenti di tale cambiamento è rappresentata ad esempio dalla femminilizzazione della forza lavoro, che ha profondamente trasformato il mondo del lavoro e ha avuto effetti rilevanti sui modelli familiari e sociali. Inoltre, il mercato del lavoro è diventato sempre più multiculturale mettendo alla prova la capacità di integrazione e interazione delle comunità. I lavoratori del settore industriale, che hanno costituito per lungo tempo una roccaforte per le organizzazioni sindacali, sono diminuiti costantemente e diventati sempre più rari, mentre sono aumentati rapidamente gli occupati nel settore dei servizi, molti dei quali sono donne e cittadini appartenenti a comunità immigrate o a minoranze etniche, spesso con contratti di lavoro a tempo parziale o a tempo determinato e impiegati in lavori precari.
A fronte di una forza lavoro sempre più diversificata e decisamente modificata rispetto al passato, esiste la necessità urgente di assicurare il riconoscimento e la non discriminazione sui posti di lavoro per tutti i lavoratori, rispetto alla loro identità di genere, ai loro orientamenti sessuali, alle loro origini etniche, ai loro credo religiosi, alle loro condizioni di diversabilità. Le istituzioni e le politiche riguardanti il mercato del lavoro devono quindi adattarsi per garantire l’accesso all’occupazione nonché una equa e giusta partecipazione di tutti al mercato del lavoro, con una maggiore attenzione ai bisogni specifici dei lavoratori.
Questo chiedono le organizzazioni sindacali e sociali europee, riunite rispettivamente nella Confederazione europea dei sindacati (Ces) e nella Piattaforma sociale (Social Platform), che in vista del Summit sull’uguaglianza, organizzato dalla presidenza di turno svedese dell’UE a metà novembre a Stoccolma, hanno redatto una Dichiarazione comune (pubblicata nelle pagine seguenti) sul ruolo dei sindacati e delle organizzazioni non governative nella lotta contro la discriminazione. Il Summit sull’uguaglianza, sottolineano le organizzazioni sindacali e sociali europee, rappresenta infatti un’occasione importante per la società civile organizzata di farsi ascoltare dai rappresentanti dei governi e delle istituzioni europee nonché di riaffermare il loro impegno in questo ambito politico.
Ces e Social Platform ritengono che ci voglia maggiore uguaglianza in Europa, grazie alle nuove iniziative politiche e giuridiche delle istituzioni dell’Ue e degli Stati membri, e un impegno più forte per garantire l’uguaglianza nella pratica. «La legislazione e le politiche in materia di uguaglianza sono importanti ma non sufficienti» sottolineano i sindacati e le associazioni europee, osservando come la disuguaglianza sociale aumenti e acuisca le situazioni di discriminazione. Per cui «le politiche sociali forti, partecipative e inglobanti nei settori dell’occupazione, della formazione, della protezione sociale, della casa e delle infrastrutture sanitarie costituiscono un requisito fondamentale per instaurare un clima positivo atto a prevenire e combattere la discriminazione».
Sono tre le richieste principali che la Ces e la Social Platform fanno alle istituzioni dell’Ue e alla presidenza di turno svedese: sviluppare e applicare il nuovo Patto sociale allo scopo di lottare contro la crisi economica; sviluppare una legislazione comunitaria complementare sotto forma di strumenti o sistemi di comunicazione che si prefiggono lo scopo di applicare la nuova clausola orizzontale del Trattato di Lisbona sull’integrazione sociale e sui diritti sociali fondamentali riportati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue; mettere completamente in atto il protocollo sui servizi di interesse generale introdotto dal Trattato di Lisbona.
La cooperazione a livello europeo tra organizzazioni sociali e sindacali in materia di antidiscriminazione è ben avviata, sottolinea il presidente della Social Platform Conny Reuter, soprattutto in materia di diversabilità e orientamento sessuale, «ma servono politiche sociali che supportino l’eguaglianza nelle aree dell’occupazione, della sicurezza sociale, dell’abitazione e delle infrastrutture, tutte precondizioni essenziali per la creazione di un clima positivo che prevenga e contenga le discriminazioni». Secondo Reuter, dove possibile la cooperazione tra organizzazioni sociali e sindacali nell’azione antidiscriminatoria deve estendersi a giudici, avvocati e operatori dei mass media.
«La sfida principale consiste nel considerare la discriminazione non come un questione isolata e riconoscere che le differenti forme di discriminazione hanno differenti basi storiche, culturali ed economiche che devono essere prese in considerazione quanto si definiscono le risposte e gli interventi» osserva Catelene Passchier, segretario confederale della Ces, secondo la quale la lotta all’ineguaglianza, al pregiudizio e alla discriminazione deve essere una sola, che metta cioè insieme le varie istanze, le varie forme e le potenziali vittime. Con questo spirito le organizzazioni sociali e sindacali devono lavorare insieme, pur riconoscendo le rispettive specificità, creando sinergia, coinvolgendo anche i datori di lavoro e facendo pressione sulle autorità pubbliche affinché intervengano in modo adeguato elaborando politiche antidiscriminatorie efficaci. Passchier individua cinque passi necessari per rendere effettivi i diritti di antidiscriminazione: «Serve una legislazione, perché le vittime possano reclamare i propri diritti. La legislazione non è però sufficiente, servono politiche sociali per rendere effettivi i diritti. Le persone devono poi essere consapevoli dei loro diritti, dal momento che solo quattro cittadini su dieci sanno che le discriminazioni di genere, etniche, religiose, di credo, di età e orientamento sessuale sono proibite dalla legge. Anche l’informazione, però, non è sufficiente e le persone devono credere nei meccanismi di indennizzo e sanzione: secondo un Rapporto dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali, il 63% degli intervistati ha dichiarato di non credere che le loro denunce possano cambiare la situazione. Infine, l’obiettivo della non discriminazione deve essere l’integrazione nella società».
INFORMAZIONI: sul sito web http://ec.europa.eu/social è consultabile il Rapporto “The Role of NGOs and Trade Unions in Combating Discrimination”, pubblicato nel settembre 2009 dalla Commissione europea
combattere la discriminazione
e garantire l’uguaglianza
Pubblichiamo di seguito la Dichiarazione congiunta in materia di non discriminazione che la Confederazione europea dei sindacati (CES) e la Piattaforma sociale europea (Social Platform) hanno indirizzato all’Ue e ai suoi Stati membri.
La Ces e la Piattaforma sociale ritengono che la lotta per l’uguaglianza in Europa richieda nuove iniziative giuridiche e politiche da parte delle istituzioni europee e degli Stati membri nonché un maggior coinvolgimento in modo da garantire l’uguaglianza nella pratica. Questo comprende l’applicazione effettiva delle attuali direttive europee. Riuniti a Budapest il 25 giugno per analizzare il rispettivo ruolo nella promozione dell’uguaglianza per tutti, la Ces e la Piattaforma sociale rivolgono la presente Dichiarazione alle istituzioni europee e alla presidenza di turno svedese dell’Ue.
1) Adottare la bozza proposta dell’articolo 13 della direttiva sulla non discriminazione al di fuori del posto di lavoro e garantire l’applicazione effettiva di tutte le direttive dell’Ue sulla parità di trattamento
È richiesta l’adozione da parte del Consiglio europeo della bozza dell’articolo 13 della direttiva che riguarda la tutela contro la discriminazione per questioni di età, disabilità, religione e orientamento sessuale in tutti i campi della vita.
Per offrire la stessa tutela giuridica a tutti i gruppi protetti contro la discriminazione per i motivi di cui all’articolo 13 del Trattato dell’Ue e per evitare che si determini una gerarchia dei motivi, questa direttiva deve avere la stessa portata e lo stesso livello di tutela della direttiva 43/2000 sull’uguaglianza delle razze e deve essere adottata entro termini di tempo ragionevoli.
Perché?
• La discriminazione rappresenta una violazione gravissima dei diritti della persona. Può andare dall’insulto alla violenza fisica, può portare al rifiuto di servizi di base e di altri diritti, colpisce la vita e le prospettive di milioni di individui in tutto il continente europeo.
• Le prove della discriminazione basata su uno dei motivi di cui all’articolo 13 del Trattato CE sono concrete e numerose e la legislazione è un requisito importante per combattere la discriminazione efficacemente.
• L’articolo 21 della Carta dell’Ue sui diritti fondamentali non stabilisce inoltre nessuna distinzione tra i motivi di discriminazione.
• I sindacati, la società civile, il grande pubblico, la Commissione europea, il 90% delle persone che hanno risposto alla consultazione della Commissione la chiedono. Inoltre, è sostenuta dal Parlamento europeo.
• La stessa tutela per tutti, indipendentemente dal motivo della discriminazione, è la scelta più semplice e più equa. Uno strumento unico per i quattro motivi garantirà lo stesso livello di tutela per tutti, eviterà qualsiasi gerarchia di trattamento (che non sia fondata su principi) tra i vari gruppi, garantirà la semplicità, la trasparenza e la coerenza per coloro i cui diritti sono tutelati da questo strumento e coloro che hanno dei doveri in virtù dello stesso e offrirà un contesto in cui la discriminazione multipla potrà essere trattata con maggiore efficacia. L’Europa disporrebbe così di condizioni identiche per tutti i motivi di discriminazione in tutti gli Stati membri.
• La Commissione europea deve continuare a garantire il recepimento e l’adeguata applicazione di questa normativa nella legislazione degli Stati membri. Devono essere fissate e applicate norme per l’efficacia e l’indipendenza degli enti sull’uguaglianza creati nell’ambito di questa legislazione. Si devono raccogliere informazioni per determinare l’impatto di tale legislazione sulla discriminazione per ogni singolo motivo in tutta l’Ue.
Nonostante la presenza di una campagna silenziosa che potrebbe cercare di affermare il contrario, le sfide incontrate in termini di applicazione della legislazione a livello nazionale, a causa dei costi o altro, non possono giustificare il mancato rispetto dei diritti dell’uomo.
2)Trattare le differenze che esistono tra i sessi e garantire l’integrazione della dimensione di genere
L’uguaglianza dei sessi è una questione fondamentale per l’Ue, basata su precise disposizioni del Trattato. Sono stati compiuti tanti progressi, ma resta ancora molto da fare.
• Il quadro legislativo esistente deve essere applicato rigorosamente ed essere consolidato, per esempio nel settore dell’uguaglianza dei salari e della conciliazione tra lavoro e vita familiare per gli uomini e le donne, e deve combattere la discriminazione delle donne in tutti i campi della vita. Di conseguenza, la legislazione europea sull’uguaglianza dei sessi deve essere attentamente rivista e rivisitata non appena possibile per offrire la stessa portata e livello di tutela della direttiva del 2000 sulle pari opportunità.
• Si devono assumere anche impegni più fermi per applicare la legislazione esistente, investire nelle infrastrutture sanitarie necessarie e promuovere le donne nel processo decisionale.
• In questo periodo di crisi economica, si devono prendere misure ad hoc per garantire che le donne possano beneficiare di azioni e attività destinate a lottare contro la disoccupazione, come per esempio la formazione e l’investimento in posti di lavoro offerti dai servizi pubblici e privati.
Per riuscire in questo intento, l’integrazione della dimensione di genere in tutti gli ambiti politici costituisce una priorità fondamentale. La Ces e la Piattaforma sociale chiedono alla Commissione e alla presidenza svedese dell’Ue di tenerne conto quando redigeranno la nuova roadmap sull’uguaglianza dei sessi e quando valuteranno il Patto del Consiglio per l’uguaglianza uomini-donne.
Chiediamo altresì alle istituzioni dell’Ue e agli Stati membri di includere sempre la dimensione di genere in tutti i lavori che verranno effettuati sulla Strategia rivista di Lisbona nonché l’uguaglianza nel senso più ampio del termine e l’agenda della diversità.
Infine, attiriamo l’attenzione sulla necessità di includere in modo più esplicito nelle politiche sull’uguaglianza di genere e nella legislazione le questioni dell’identità dei sessi e dell’uguaglianza di trattamento dei transessuali che, per la giurisprudenza, sono già coperte da regole di uguaglianza dei sessi.
3) Integrare l’uguaglianza in tutte le politiche dell’Ue
Per garantire l’uguaglianza, l’Ue deve andare oltre l’articolo 13 che copre solo sei motivi di discriminazione, per esempio l’età, il sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o il credo, l’orientamento sessuale e la disabilità. L’articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue forniscono un elenco non esauriente delle discriminazioni vietate e comprendono motivi come l’origine sociale, le caratteristiche genetiche, l’opinione politica, l’affiliazione sindacale o politica o qualsiasi altra opinione.
I decisori dell’Ue dovranno adottare un approccio di più ampio respiro nei confronti della lotta contro tutti i tipi di discriminazione. Questo significa:
• riconoscere le somiglianze e le differenze tra le varie forme di discriminazione per i vari motivi, che devono essere rispettate e prese in considerazione quando si sviluppa un approccio di integrazione della dimensione di genere;
• accertarsi che la valutazione dell’impatto effettuata dalla Commissione europea comprenda linee di condotta chiare sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e in particolare sull’uguaglianza dei sessi, l’uguaglianza per tutti e l’assenza di discriminazione. Si dovrebbe anche prevedere l’obbligo di consultare le organizzazioni dei gruppi potenzialmente colpiti;
• stabilire e chiedere l’uguaglianza di genere a livello nazionale, il metro di misura per l’uguaglianza e la non discriminazione, la valutazione e l’integrazione di tutti gli strumenti e in particolare di quelli che si riferiscono alla creazione di fondi strutturali e mercati pubblici, agli orientamenti integrati per la crescita e i posti di lavoro, agli orientamenti per il metodo aperto di coordinamento in materia di integrazione sociale, la protezione sociale e le pensioni;
• progettare strumenti e forme di comunicazione che permettano di applicare le nuove clausole orizzontali del Trattato di Lisbona sull’integrazione delle questioni di genere e l’anti-discriminazione e la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue.
4) Investire nelle politiche sociali e in servizi pubblici forti che favoriscono l’uguaglianza
La legislazione e le politiche in materia di uguaglianza sono importanti ma non sufficienti. La disuguaglianza sociale aumenta e acuisce le situazioni di discriminazione. Le politiche sociali forti, partecipative e inglobanti nei settori dell’occupazione, della formazione, della protezione sociale, della casa e delle infrastrutture sanitarie costituiscono un requisito fondamentale per instaurare un clima positivo atto a prevenire e combattere la discriminazione.
La Ces e la Piattaforma sociale chiedono pertanto alle istituzioni dell’Ue e alla presidenza svedese di prendere le misure necessarie per:
• sviluppare e applicare il nuovo Patto sociale che hanno chiesto di recente allo scopo di lottare contro la crisi economica;
• sviluppare una legislazione comunitaria complementare sotto forma di strumenti o sistemi di comunicazione che si prefiggono lo scopo di applicare la nuova clausola orizzontale del Trattato di Lisbona sull’integrazione sociale e sui diritti sociali fondamentali riportati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue;
• mettere completamente in atto il protocollo sui servizi di interesse generale introdotto dal Trattato di Lisbona.
5) Sviluppare politiche di migrazione e integrazione basate sui diritti
L’Ue deve accertarsi con urgenza della completa applicazione dell’articolo 13 della direttiva sulla razza che costituisce un elemento fondamentale per compensare i problemi di razzismo e xenofobia incontrati dai cittadini europei che appartengono a una minoranza etnica nonché dai cittadini dei Paesi terzi, sia nella società nel suo insieme che nel mondo del lavoro.
Le politiche di migrazione e integrazione basate sui diritti sono altrettanto fondamentali per prevenire e opporsi alla xenofobia e alle discriminazioni di razza e religione.
• Le politiche dell’Ue e nazionali dovrebbero offrire ai migranti canali di migrazione legali a tutti i livelli di competenza, tutela contro lo sfruttamento nonché pari diritti e opportunità nelle nostre società. Ce la si può fare garantendo i diritti sociali fondamentali e l’accesso ai servizi, sostenendo reali meccanismi di integrazione che contribuiscano alla loro promozione sul mercato dell’occupazione, incoraggiando nel contempo la coesione sociale. Tali politiche dovrebbero essere elaborate in stretta consultazione con i partner sociali e la società civile nonché i migranti stessi a tutti i livelli appropriati.
• Tali politiche devono basarsi su un ambito di diritto chiaro, così come stabilito dalle varie Convenzioni delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil-Ilo) e dagli strumenti del Consiglio dell’Europa e garantire un trattamento umano e il rispetto dei diritti dell’uomo per tutti, ivi compresi i migranti irregolari e i gruppi di migranti più vulnerabili, come i minorenni non accompagnati.
• Tali politiche dovrebbero altresì offrire ai migranti, regolari e non regolari, ai rifugiati e ai richiedenti asilo spazi di tutela chiari e privi di ambiguità conformi ai criteri internazionali in materia di diritti dell’uomo, tenendo conto del fatto che per alcuni di loro il motivo per lasciare il Paese di origine è che sono oggetto di discriminazioni gravi da parte degli Stati, della società, se non addirittura della famiglia.
La Ces e la Piattaforma sociale chiedono alla presidenza di turno svedese, alla Commissione europea e al Consiglio dell’UE di tener conto di questi elementi sulla migrazione e sul diritto di asilo nell’elaborazione e nell’implementazione del nuovo Programma di Stoccolma.
6) Lavorare in collaborazione con i sindacati e le organizzazioni della società civile
È importante che l’Ue lavori in stretta collaborazione e stabilisca regolari rapporti di consultazione con i sindacati e le organizzazioni della società civile a livello europeo e nazionale per la redazione, l’adozione, l’applicazione e la valutazione delle politiche di uguaglianza e non discriminazione – in particolare per quanto riguarda la preparazione e l’organizzazione del futuro Summit sull’uguaglianza che si svolgerà in novembre a Stoccolma.
Le politiche non devono essere semplicemente elaborate per i cittadini ma anche con loro.
I sindacati e le organizzazioni della società civile hanno un ruolo specifico e complementare da svolgere, offrendo alle persone un luogo dove esprimersi e una rappresentanza sul posto di lavoro, sul mercato del lavoro e nella società in generale, e di conseguenza il loro compito dovrebbe essere riconosciuto e facilitato in quanto si tratta di protagonisti importanti che devono essere informati, consultati e coinvolti nell’elaborazione di qualsiasi politica e attività in materia di uguaglianza.
La Ces e la Piattaforma sociale chiedono alle istituzioni dell’Ue e alla presidenza di turno svedese nonché alle presidenze che seguiranno di impegnarsi fermamente per dar seguito a questa Dichiarazione.
Catelene Passchier, segretario confederale della Ces
Conny Reuter, presidente della Piattaforma sociale
COSA SONO CES E SOCIAL PLATFORM
La Confederazione europea dei sindacati (Ces) esprime una sola voce a nome degli interessi comuni dei lavoratori a livello europeo. Fondata nel 1973, oggi rappresenta ben 82 organizzazioni sindacali in 36 Paesi europei nonché 12 federazioni settoriali.
La Piattaforma sociale (Social Platform) è la più grande alleanza della società civile europea che lotta per la giustizia sociale e la democrazia partecipativa in Europa. Composta da 42 reti paneuropee di Ong, la Piattaforma sociale milita per garantire che le politiche dell’Ue siano elaborate in collaborazione con le persone interessate, nel rispetto dei diritti fondamentali, incoraggiando la solidarietà e migliorando la vita.
INFORMAZIONI:
• Ces: Cinzia Sechi, policy adviser; tel. +3222240468;
mail: csechi@etuc.org; web http://www.etuc.org
• Social Platform: PierreBaussand, policy officer; tel.+3225081639;
antidiscriminazione: la legislazione europea
Per molti anni l’attenzione dell’Unione europea nel campo della non discriminazione è stata rivolta alla prevenzione della discriminazione per nazionalità e sesso (discriminazione di genere). Nel 1997 gli Stati membri hanno approvato il Trattato di Amsterdam, il cui articolo 13 garantiva nuovi poteri per combattere le discriminazioni per motivi di sesso, razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali. Dall’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam nel 1999, l’Ue ha approvato nuove leggi, o direttive, in materia di antidiscriminazione: la direttiva 2000/43/CE sull’uguaglianza razziale e la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di lavoro.
direttiva 2000/43/CE: pari trattamento indipendentemente da razza e origine etnica
– Sancisce il principio dell’uguaglianza di trattamento delle persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
– Tutela contro le discriminazioni nell’ambito lavorativo e formativo, dell’istruzione, della protezione sociale (previdenza e sanità), delle prestazioni sociali, dell’appartenenza e della partecipazione alle organizzazioni sindacali e di categoria, e dell’accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio.
– Contiene le definizioni di discriminazione e molestie dirette e indirette e vieta l’istigazione alla discriminazione e alla persecuzione.
– Consente l’adozione di misure positive, per garantire l’effettiva applicazione del principio di eguaglianza.
– Riconosce alle vittime di discriminazioni il diritto di ricorrere per via giudiziaria o amministrativa, associato a pene appropriate per coloro che discriminano.
– Consente eccezioni limitate al principio dell’uguaglianza di trattamento, ad esempio nei casi in cui la differenza di trattamento sulla base della razza o dell’origine etnica costituisce un requisito lavorativo reale.
– Condivide l’onere della prova fra l’attore e il convenuto nelle cause amministrative e civili, per cui, una volta che la presunta vittima dimostra i fatti da cui si può presumere la discriminazione, spetta al convenuto provare la non violazione del principio di pari trattamento.
– Prevede la creazione in ogni Stato membro di una organizzazione per promuovere l’uguaglianza di trattamento e fornire assistenza indipendente alle vittime delle discriminazioni razziali.
direttiva 2000/78/CE: pari trattamento in materia di occupazione
– Sancisce il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di ambiente di lavoro senza riguardo di religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, per quanto riguarda l’impiego, la formazione, l’appartenenza e la partecipazione ad organizzazioni sindacali e di categoria.
– Include clausole identiche a quelle della direttiva sull’uguaglianza razziale per quanto riguarda le definizioni di discriminazione e molestie, il divieto di istigazione alla discriminazione e alla persecuzione, le azioni positive, i diritti di conciliazione legale e l’onere della prova.
– Richiede che i datori di lavori adottino delle soluzioni ragionevoli per permettere ad una persona disabile, qualificata per il lavoro in questione, di svolgere la formazione o l’impiego retribuito.
– Permette delle eccezioni limitate al principio dell’uguaglianza di trattamento, ad esempio nel caso in cui ci sia necessità di preservare l’etica di un’organizzazione religiosa, oppure laddove un datore di lavoro abbia la necessità legittima che il lavoratore appartenga ad una determinata fascia d’età per essere assunto.
proposta di direttiva su antidiscriminazione extra lavorativa
Nell’aprile 2009 il Parlamento europeo ha espresso parere favorevole sulla proposta di direttiva, presentata nel luglio 2008 dalla Commissione europea, che stabilisce un quadro generale per la lotta alla discriminazione per motivi di religione o convinzioni personali, disabilità, età od orientamento sessuale, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio di parità di trattamento anche in campi diversi dall’occupazione, completando altri provvedimenti che vietano tali discriminazioni nella sfera professionale.
La proposta di direttiva pone un divieto di discriminazione da applicare a tutte le persone sia del settore pubblico sia del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene alla sicurezza sociale e all’assistenza sanitaria, alle prestazioni sociali, all’istruzione e all’accesso a beni e servizi disponibili al pubblico e alla loro fornitura, inclusi gli alloggi. L’Europarlamento ha chiesto di includere esplicitamente anche i trasporti e di escludere le transazioni tra privati che non costituiscono un’attività commerciale o professionale; ha proposto inoltre di applicare il divieto all’affiliazione e all’attività in associazioni nonché alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.
Il Parlamento europeo ha poi chiesto di precisare le norme sugli obblighi di banche e assicurazioni quando discriminano in base all’età e sull’accesso alle scuole religiose, nonché di rafforzare i diritti dei disabili. Così come ha auspicato anche l’esclusione dalla direttiva delle disposizioni nazionali sulla famiglia, la laicità dello Stato, l’istruzione e la pubblicità. Ai governi dell’Ue è stato chiesto di adottare le misure necessarie affinché il danno subito a causa di una discriminazione sia effettivamente indennizzato o risarcito.
Questa proposta di direttiva era stata oggetto di varie discussioni e critiche iniziali sui limiti del testo annunciato dall’esecutivo europeo, che escludeva alcune forme di discriminazione. Così nel maggio 2008 era già intervenuto il Parlamento europeo sollecitando una legislazione «di ampia portata», che difendesse i cittadini da tutte le forme di discriminazione. L’Europarlamento dichiarava infatti di rifiutare un «approccio frammentario» chiedendone invece uno «unificato» nella lotta alla discriminazione, che inglobasse e tenesse presenti allo stesso tempo «tutti i motivi di discriminazione» e che coprisse quindi «gli handicap, l’età, la religione o le convinzioni personali e le tendenze sessuali, allo scopo di completare il pacchetto di norme antidiscriminazione ai sensi dell’articolo 13 del Trattato dell’Ue».
Sulla base delle osservazioni dell’Europarlamento, la Commissione europea ha quindi formulato la sua proposta di direttiva nel luglio 2008, poi approvata appunto dal Parlamento europeo nell’aprile 2009. La direttiva europea riguarderà i servizi sociali e sanitari, l’educazione, l’alloggio e l’accesso a beni e servizi, dovrà coprire anche i casi di discriminazione multipla e «per associazione», cioè quando si è discriminati per il legame che si ha con una vittima di discriminazione, mentre includerà tra le forme di discriminazione anche le molestie.
INFORMAZIONI: il quadro e i testi della legislazione europea in materia di antidiscriminazione sono consultabili all’indirizzo web http://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=423&langId=it
persiste la discriminazione di genere
La parità di genere è la «precondizione per il pieno raggiungimento degli obiettivi di crescita, occupazione e coesione sociale dell’Ue» ha scritto la Commissione europea nel Rapporto sull’eguaglianza tra donne e uomini pubblicato nel febbraio 2009, sottolineando come incrementare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro offra contemporaneamente una garanzia per la loro indipendenza economica e un sostanziale contributo allo sviluppo economico e alla sostenibilità del sistema di protezione sociale.
Se il livello di occupazione femminile nell’Ue è ormai vicino all’obiettivo della Strategia di Lisbona (60% nel 2010), esistono però profonde differenze tra gli Stati membri, con tassi che variano dal 36,9% al 73,2%. Le differenze di genere nel tasso di occupazione sono diminuite dagli oltre 17 punti percentuali del 2000 ai 14,2 punti del 2007, ma se si considera il tasso di occupazione delle donne con figli di età inferiore ai 12 anni la differenza di genere è almeno doppia. Il fatto che il tasso di occupazione delle donne scenda del 12,4% quando hanno figli mentre aumenti del 7,3% tra gli uomini con figli evidenzia l’ineguale divisione delle responsabilità nonché la mancanza di strutture per la cura dei bambini e di politiche che bilancino il rapporto tra vita professionale e vita familiare.
maggior precarietà,
gap salariale e segregazione occupazionale
Il Rapporto ha poi sottolineato il fatto che le donne sono sovrarappresentate nel lavoro precario e nei contratti di lavoro a breve termine, con maggiori probabilità di essere colpite dagli effetti della crisi economica sul mercato del lavoro. La percentuale di donne impiegate a tempo parziale era del 31,2% nel 2007, cioè quattro volte più elevata di quella degli uomini. «Nonostante il part time e altre misure di flessibilità lavorativa possano riflettere scelte personali, l’ineguale divisione delle responsabilità domestiche e familiari comporta che siano più le donne degli uomini a optare per tali misure»: nell’Ue oltre sei milioni di donne di 25-49 anni d’età dichiarano di essere obbligate a non lavorare o a lavorare part time causa le loro responsabilità familiari.
Esiste poi una «segregazione occupazionale e settoriale» per le donne, rimasta praticamente immutata nella maggior parte degli Stati membri negli ultimi anni, che in maggioranza sono impiegate in alcuni settori e professioni, in livelli occupazionali più bassi e con minor accesso a posizioni più elevate. Le donne restano infatti ancora fortemente sottorappresentate nelle posizioni di responsabilità manageriale e politica, soprattutto nei livelli più alti. La percentuale di donne manager è rimasta praticamente uguale negli ultimi anni con una media Ue del 30% ma percentuali più basse nella maggior parte degli Stati membri e che scende al 10% nei consigli di amministrazione delle società più quotate e al 3% nei posti di presidenza delle stesse.
Una delle conseguenza della segregazione occupazionale di genere e della maggior concentrazione femminile nel lavoro precario o part time è la persistente disparità retributiva, mediamente al 17,4% nell’Ue. Anche in merito alla disparità salariale di genere si registrano sensibili differenze tra gli Stati membri dell’Ue, da un minimo del 4% a un massimo del 25%, ma in generale una donna deve lavorare fino al 22 febbraio (ossia 418 giorni di calendario) per guadagnare quanto un uomo guadagna in un anno. La disparità retributiva tra i sessi «ha svariate cause e richiede soluzioni a più livelli», sostiene la Commissione europea, e riflette le discriminazioni e le disuguaglianze attualmente esistenti sul mercato del lavoro e che, di fatto, colpiscono soprattutto le donne. Spesso, ad esempio, il lavoro delle donne è visto come meno prezioso di quello degli uomini e spesso le donne lavorano in settori le cui retribuzioni sono, in media, inferiori a quelle dei settori “maschili”. La disparità salariale, riducendo reddito e pensioni durante la vita attiva delle donne, causa poi povertà in età avanzata: il 21% delle donne di oltre 65 anni d’età rischia la povertà, contro il 16% degli uomini. «In questo momento della nostra vita economica, la parità tra uomini e donne è più importante che mai. Solo se raccogliamo il potenziale di tutti i nostri talenti possiamo fare fronte alla crisi» ha detto il commissario europeo per Affari sociali, Occupazione e Pari opportunità, Vladimír Špidla.
l’eguaglianza di genere contribuisce alla crescita
Eppure, se le differenze di genere in campo occupazionale fossero eliminate si stima un potenziale incremento del Pil negli Stati membri dell’Ue compreso tra il 15% e il 45%, anche per questo contributo essenziale alla crescita economica è dunque necessario migliorare le pari opportunità di genere nell’Ue. Il tema è stato discusso dai ministri europei responsabili per l’eguaglianza di genere e per le questioni economico-finanziarie, in occasione di una Conferenza svoltasi a Stoccolma su iniziativa della presidenza di turno svedese dell’Ue (15-16 ottobre 2009).
Negli ultimi dieci anni sono stati computi importanti progressi in materia di partecipazione delle donne al mercato del lavoro, con un tasso di occupazione femminile passato dal 52% nel 1998 al 59,1% del 2008. Tuttavia, rispetto all’occupazione maschile permangono forti differenze sia quantitative (13,7 punti percentuali in meno per il tasso di occupazione femminile) sia qualitative: differenze salariali medie del 17%, part-time involontario con percentuali quattro volte più elevate per le donne, segregazione di genere nel mercato del lavoro. Molti Paesi europei, è stato evidenziato durante la Conferenza, offrono scarsi incentivi alle donne per ritornare al lavoro dopo aver usufruito di congedi parentali: contributi inadeguati, scarsi servizi per la cura dell’infanzia e della vecchiaia, sistemi fiscali che non sgravano il lavoro familiare sono le ragioni principali per cui le donne, impegnate nella cura dei figli e degli anziani, spesso si trovano impossibilitate a rientrare nel mercato del lavoro.
Una situazione da affrontare concretamente, anche per capire come poter mantenere adeguate politiche per la parità di genere in un periodo di profonda crisi economica.
parità di genere a rischio nella crisi
E a questo proposito i sindacati europei avevano lanciato un allarme già in occasione della Giornata mondiale delle donne l’8 marzo scorso, ponendo l’attenzione sull’inserimento delle tematiche di genere nelle varie politiche e azioni sviluppate per far fronte alla crisi economica. «Ora più di prima è necessario focalizzarsi sulle tematiche dell’equità, dell’uguaglianza e della non discriminazione» ha sottolineato la Ces, osservando che con una recessione che dilaga e si radica nell’economia globale, sia le donne che gli uomini soffriranno delle conseguenze che la crisi avrà sul mercato del lavoro e dei rischi di disuguaglianze di genere che saranno ulteriormente aggravate dalla crisi: «In tempi di recessione, le donne spesso sperimentano le conseguenze negative in modi diversi rispetto agli uomini, dal momento che sono legate al loro duplice ruolo nel lavoro e in casa».
Dal momento che rispetto agli uomini è anche più probabile che siano sottopagate e occupino posizioni precarie, le donne devono affrontare il grande rischio di una immediata condizione di povertà nel momento in cui perdono il lavoro.
«A causa dell’espansione in tutta Europa della recessione, le politiche si focalizzeranno più verosimilmente sulla salvaguardia dei posti di lavoro piuttosto che sulle questioni riguardanti l’equa distribuzione delle retribuzioni tra i sessi, la flessibilità degli orari di lavoro per conciliare il lavoro e la vita familiare e la protezione dei diritti di maternità e paternità» notava la Ces, secondo cui l’aspetto pubblico della crisi è il problema per l’uomo di affrontare la chiusura degli stabilimenti produttivi, la perdita del posto di lavoro e la perdita, da parte dei banchieri, dei loro bonus. In questo modo, le donne sono sull’orlo della crisi. «Ma i tanto sudati diritti al lavoro che hanno permesso alle donne di combinare la vita professionale con quella familiare – possibilità di badare ai bambini, lavoro flessibile, più diritti di maternità e lavoro part-time – potrebbero ora essere messi a rischio e la condizione femminile potrebbe diventare maggiormente vulnerabile» secondo i sindacati europei, che ritengono essenziale affrontare le tematiche di genere per il progresso sociale e la sostenibilità, ancor di più in tempi di recessione.
«Per salvaguardare l’Europa sociale è necessario promuovere una “ripresa equa”, che crei cioè delle opportunità per tutti e non peggiori i già esistenti problemi di ineguaglianze tra uomini e donne, ma che permetta loro di riunire le loro aspirazioni di partecipare al mercato del lavoro e di beneficiare di una prosperità materiale» sottolineano i sindacati europei avanzando alcune richieste ai decisori politici:
– proteggere i posti di lavoro e offrire istruzione e formazione professionale non solo per i lavoratori delle industrie strategiche, ma anche nelle catene di fornitori e nei settori dei servizi, dove la maggioranza delle donne impiegate lavora in condizioni precarie senza alcuna protezione e quindi rischia in caso di tagli netti al personale;
– evitare tagli eccessivi alla spesa pubblica, che potrebbero minacciare i lavoratori pubblici, che sono soprattutto donne, ma che potrebbero anche peggiorare il livello dei servizi pubblici (come i servizi per l’infanzia) necessari alle donne per combinare la loro partecipazione al mercato del lavoro con le cure domestiche;
– rafforzare ed estendere la protezione sociale garantendo l’accesso alla sicurezza sociale, alle pensioni, ai sussidi di disoccupazione, alla protezione della maternità e alla qualità del servizio sanitario per tutti.
Inoltre, secondo la Confederazione europea dei sindacati, «per far sì che la voce delle donne sia ascoltata e che le capacità delle donne siano pienamente utilizzate quando si affrontano le sfide dei nostri tempi, è di massima importanza investire in una migliore rappresentanza delle donne a tutti i livelli del decision-making politico e socio-economico».
INFORMAZIONI: sul sito web della presidenza di turno svedese dell’Ue è possibile consultare il Rapporto “Gender equality, economic growth and employment”
L’ACCORDO EUROPEO SUL CONGEDO PARENTALE
Il 18 giugno 2009 i partner sociali europei hanno formalmente adottato un accordo che rivede il loro accordo quadro del 1995 sul congedo parentale. «Questa è una pietra miliare nella storia di 25 anni del dialogo sociale europeo, poiché per la prima volta i partner sociali europei si sono accordati sulla revisione di un preesistente accordo quadro» ha osservato la Ces. Si tratta del loro settimo accordo quadro da quando il primo accordo sul congedo parentale è stato concluso nel 1995, successivamente trasposto in una direttiva europea del 1996. Questo accordo rivisto migliora molte misure presenti nell’accordo precedente, attraverso: un aumento della durata del congedo parentale da tre a quattro mesi ed il suo rafforzamento quale diritto individuale, rendendone una parte completamente non trasferibile; offre ai lavoratori il diritto di richiedere degli orari di lavoro più flessibili quando ritornino dal congedo; richiama gli Stati membri e/o i partner sociali a stabilire periodi di notifica che i lavoratori devono dare quando esercitano il loro diritto al congedo parentale. Esso inoltre sollecita il riconoscimento di strutture familiari diverse e la promozione di un’equa condivisione delle responsabilità della famiglia tra uomini e donne. Oltre a ciò, esso rispetta la diversità delle misure intraprese dagli Stati membri in settori quali le facilitazioni al congedo, la cura dell’infanzia e gli orari di lavoro flessibili. La felice conclusione di tale accordo mostra il ruolo positivo del dialogo sociale europeo nel trovare soluzioni atte a rispondere alle importanti sfide che l’Europa si trova da affrontare, anche in tempi di crisi. Esso tiene peraltro conto delle necessità dei datori di lavoro e dei lavoratori restando completamente in linea con gli obiettivi della Strategia di Lisbona. «L’accordo contribuirà ad una migliore conciliazione fra gli aspetti della vita professionale, privata e familiare ed è altresì una risposta positiva al cambiamento demografico poiché dovrebbe aiutare ad incrementare la partecipazione degli europei al mercato del lavoro» ha sottolineato la Ces.
INFORMAZIONI: http://www.etuc.org
PIÙ DONNE NELLE TECNOLOGIE DELL’INFORMAZIONE
Circa sei mesi dopo la pubblicazione, da parte della Commissione europea, di un codice di buone pratiche per le donne nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic), 28 imprese europee si sono impegnate a rafforzare la presenza di donne in organico. Un numero in aumento, dato che quando l’iniziativa fu lanciata nel marzo 2009 solo 5 imprese sottoscrissero l’impegno a incoraggiare le giovani donne a perseguire studi e carriera nei settori industriali delle telecomunicazioni, della tecnologia e di internet. Da allora il codice è stato sottoscritto da imprese grandi, medie e piccole, uffici di consulenza, istituzioni accademiche, Ong e organismi di regolamentazione delle telecomunicazioni. Il codice europeo di buone pratiche per le donne nel settore delle Tic mira non solo a rendere appetibile il settore high-tech alle studentesse delle scuole superiori o universitarie, ma anche a promuovere e mantenere i posti di lavoro attualmente occupati dalle donne in questo settore.Benché le donne ottengano il 45% dei diplomi di dottorato rilasciati in Europa, solo un quarto di essi riguarda i settori dell’ingegneria, della produzione industriale e delle costruzioni. Inoltre solo il 7% dei consiglieri di amministrazione delle 116 più grandi imprese di telecomunicazione in Europa è rappresentato da donne. Numeri ricordati dalla commissaria europea per la Società dell’informazione e i Media, Viviane Reding, la quale ha chiesto un ulteriore impegno per raddoppiare questo dato entro il 2015 e garantire una piena valorizzazione del potenziale femminile in questo settore: «Invito pertanto l’intero settore delle Tic a sottoscrivere e applicare sollecitamente il codice di buone pratiche».Intanto è stato inaugurato anche un nuovo strumento informatico con l’obiettivo di centralizzare tutte le informazioni relative alle donne nel settore delle Tic nell’Ue. Il repertorio online coprirà tre diversi settori: tecnologia, creazione di comunità e imprese; riunisce in un unico spazio tutte le attività, le proposte di lavoro, la legislazione e le statistiche relative alle donne nelle Tic, fornisce una visione d’insieme su quanto avviene in questo settore in Europa e favorisce la collaborazione e la costituzione di reti tra i differenti soggetti del settore: 1000 di essi sono stati invitati a comparire nel repertorio.
INFORMAZIONI: http://ec.europa.eu/information_society/activities/itgirls/index_en.htm – http://www.ictwomendirectory.eu
DISCRIMINAZIONE ETNICA: UN PROBLEMA EUROPEO
Come ampiamente trattato nell’inserto del n. 55/2009 di “euronote” sul tema xenofobia e razzismo (cui rimandiamo per approfondimenti, vedi http://www.euronote.it), nonostante il 2008 sia stato l’Anno europeo del dialogo interculturale le cronache hanno mostrato una realtà diversa, evidenziando tutte le difficoltà interculturali con pregiudizi e xenofobia diffusi, fino a sfociare in alcuni casi in episodi di violenza, e con responsabilità mediatiche e politiche a vari livelli nella creazione di un’opinione pubblica poco incline all’interculturalità. L’organizzazione European Network Against Racism (Enar) ha segnalato un razzismo «pervasivo e persistente» nell’Ue in molti importanti settori della vita sociale quali lavoro, casa, istruzione, salute, ordine pubblico, accesso a beni e servizi, media. In ambito lavorativo, ad esempio, «la discriminazione contro le minoranze etniche e religiose continua ad essere prevalente nonostante l’esistenza, in quasi tutti i Paesi, di leggi che la proibiscono». Nell’accesso alla casa preoccupa il fatto che gli appartenenti alle minoranze siano molto più esposti della media dei residenti al rischio di essere senza casa o vivere in abitazioni inadeguate. Particolarmente allarmante il fatto che sia sempre più evidente la tendenza a considerare “accettabili” i crimini razzisti e i maltrattamenti contro appartenenti alle minoranze etniche e religiose. Inoltre, si registrano tendenze preoccupanti come la crescente percezione e rappresentazione negativa dell’immigrazione e dei migranti, l’impatto dannoso di molte politiche dell’immigrazione sull’integrazione delle minoranze etniche e degli immigrati e i problemi cui sono sottoposte le minoranze etniche nell’ambito delle misure contro il terrorismo e di “ordine pubblico”. Anche l’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Ue (Fundamental Right Agency – Fra) ha rilevato diffuse pratiche discriminatorie dirette o indirette sia nella fase di ingresso nel mercato del lavoro e di assunzione sia sul luogo di lavoro. Si va dagli insulti e abusi (Austria, Belgio, Irlanda, Slovenia, Svezia i Paesi da cui sono giunte segnalazioni in proposito) a discriminazioni salariali e di condizioni di lavoro (Finlandia, Romania) o in fase di licenziamento (Paesi Bassi, Ungheria), fino a terzi che incitano gli imprenditori a cooperare in pratiche discriminatorie (Danimarca, Francia). Molte di queste pratiche, sottolinea l’Agenzia, generalmente emergono solo attraverso studi e ricerche, ma in alcuni Paesi avvengono in modo evidente come ad esempio in annunci di lavoro che escludono gli stranieri (Austria, Danimarca). In generale, secondo l’Agenzia, gli Stati membri non fanno abbastanza per fronteggiare razzismo, xenofobia e discriminazioni. Ad esempio, monitorando l’applicazione della direttiva europea sull’uguaglianza razziale (2000/43/CE). In tempi di crisi economica, poi, la condizione dei lavoratori migranti è ancora più a rischio. «I lavoratori e le lavoratrici migranti sono in prima linea di fronte alla crisi economica e finanziaria, poiché generalmente sono operanti nei settori più precari e meno protetti. Ripercussioni considerevoli sono da temere anche per le famiglie nei Paesi di origine, la cui sopravvivenza si fonda in gran parte sulle rimesse dei migranti» ha osservato la Confederazione sindacale internazionale (Csi), ricordando che «il movimento sindacale internazionale è molto attento a far sì che le risposte alla crisi finanziaria ed economica attuale non ledano i diritti fondamentali dei lavoratori e delle lavoratrici migranti».
INFORMAZIONI: http://www.ituc-csi.org http://fra.europa.eu/fra/index.php – http://www.enar-eu.org