compromesso Bolkestein
Adesso che il Parlamento europeo ha espresso, in prima lettura, il suo voto
sulla proposta di direttiva Bolkestein è venuto il momento di un primo
bilancio su una vicenda ricca di molti risvolti. A cominciare dalle reazioni
suscitate, talune del tutto non pertinenti o almeno tardive per finire con una
valutazione degli emendamenti proposti e alcune considerazioni sulla traiettoria
futura della direttiva. La proposta di direttiva che, come è noto, mira
a promuovere la libera circolazione dei servizi nell’Ue ha sicuramente provocato
reazioni tardive in chi aveva dimenticato che quell’obiettivo era iscritto già
nel Trattato di Roma del 1957, rilanciato negli anni Ottanta con il completamento
del mercato unico, ripreso con forza dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000
prima di essere fatto proprio dalla Commissione Prodi nel 2004. L’attenzione
pubblica al tema esplode soltanto nel 2005, in un contesto non pertinente: quello
del dibattito sulla Costituzione europea che anzi sull’argomento “servizi pubblici”
conteneva qualche modesto progresso. In particolare, richiamando il ruolo dei
servizi di interesse economico generale nella «promozione della coesione
sociale e territoriale» (art. III.6) e prevedendo «limiti»
alla concorrenza per non ostacolare «l’adempimento, in linea di diritto
e di fatto, della specifica missione loro affidata» (art. III.55).
La prova dell’estraneità della Bolkestein al dettato costituzionale è
tanto nel fatto che questa si fonda sui Trattati precedenti quanto nella constatazione
che il suo percorso proseguirà con minori salvaguardie senza la Costituzione.
Ma poiché non tutti i mali vengono per nuocere e aprire gli occhi è
meglio tardi che mai, la Bolkestein è stata un test importante per misurare
il gap crescente che si registra nell’Ue tra l’integrazione dei mercati
e la costruzione di un modello sociale, se non proprio armonizzato, almeno convergente.
L’allarme lanciato dal sindacato e da movimenti progressisti ha contribuito
a riportare il tema al centro dell’attenzione e, grazie a mobilitazioni anche
insolite per un argomento di tale complessità, ha spinto un vasto arco
di forze politiche a interventi vigorosi che hanno dato un primo importante
frutto e, tra questi, la salvaguardia del diritto del lavoro. Il compromesso
negoziato non senza fatica tra i due maggiori partiti del Parlamento europeo,
il Ppe e il Pse, potrebbe sminare, almeno in parte, gli articoli più
distruttivi della direttiva. In particolare l’art. 16, dove l’abolizione del
principio del Paese d’origine riconsegna i servizi alle regole e ai controlli
del Paese dove avviene la prestazione e, in parte minore, l’art. 2 con l’esclusione
dai servizi esposti ai rischi della liberalizzazione di quelli relativi a poste,
elettricità, gas, acqua, sanità, servizi sociali ma non di quelli
relativi all’immobiliare, costruzioni, informatica, cultura, istruzione privata,
ecc. Il risultato del voto, se da una parte ha rivitalizzato il ruolo del Parlamento
di fronte a una Commissione abulica e a un Consiglio diviso, non ha però
potuto evitare all’interno del blocco Ppe-Pse spaccature trasversali. Su punti
importanti si sono registrate defezioni significative, ma anche adesioni da
parte di forze politiche progressiste che avrebbero poi espresso un voto globale
negativo sul risultato finale. Non meno problematiche le divisioni motivate
dalla collocazione nazionale dei parlamentari, dove il malumore e la delusione
in provenienza da est annuncia future tensioni anche in seno ai due partiti
maggiori.
Alla fine, su tutto, si impone un’evidenza: questa Unione non può reggere
a lungo senza un chiarimento sui suoi valori di riferimento e sui vincoli di
regole comuni. Il compromesso è fragile, oltre che confuso (è
facile prevedere il contenzioso che approderà dinanzi alla Corte di Giustizia),
proprio perché è il risultato di visioni diverse e talora incompatibili
del progetto europeo e le ulteriori divergenze che si manifesteranno in seno
al Consiglio dei ministri ne saranno la riprova.
Perché ora la strada continua in salita: che ne faranno i governi nazionali
della proposta modificata che la Commissione presenterà sulla base degli
emendamenti votati dal Parlamento? A partire da maggio toccherà al Consiglio
cercare un compromesso da sottoporre al Parlamento in seconda lettura: difficile
che le deliberazioni finali avvengano prima dell’autunno.
Se alla fine la direttiva sarà adottata se ne può prevedere l’entrata
in vigore al termine del decennio. Si preannunciano così ulteriori divergenze
tra i fautori dell’Europa mercato e quelli dell’Europa politica, senza la quale
non ci sono grandi prospettive per l’Europa sociale e un’armonizzazione verso
l’alto delle sue tutele. Una conta sommaria dà i primi in forte maggioranza,
i secondi ad oggi poco numerosi e soprattutto timidi se non contraddittori.
Secondo il Trattato costituzionale europeo, l’Unione «promuove la
coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli
Stati membri» (art.3§3): questa è una delle buone ragioni
per riprendere con forza il processo costituzionale.
Franco Chittolina
anno nuovo per un'Europa
in crisi
L’Unione europea si lascia alle spalle un 2005 che verrà probabilmente
ricordato come uno degli anni più difficili della sua storia. E già
alcuni raffronti sono stati proposti: dalla crisi degli inizi, quando non andò
in porto la transizione dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio
(Ceca) alla Comunità europea della difesa (Ced), alla crisi degli anni
Sessanta con la politica della “sedia vuota” praticata da De Gaulle in difesa
della sovranità della Francia e poi la crisi del primo allargamento in
coincidenza con la crisi energetica degli anni Settanta, la conflittualità
permanente durante il governo della Thatcher negli anni Ottanta, i brividi fatti
correre negli anni Novanta con i referendum danese e francese sul Trattato di
Maastricht e via via fino ai nostri giorni, in un’altalena di alti e bassi che
non ha mai smesso di oscillare.
Insomma, una storia che per tanti versi assomiglia a quella che, in un concentrato
molto denso, abbiamo vissuto nel corso dell’anno che si è appena concluso:
verrebbe voglia di dire che ancora una volta non c’è niente di nuovo
sotto il sole. Ma sarebbe un errore, perché la crisi del 2005 si è
sviluppata in un contesto del tutto diverso da quello dei decenni precedenti
e potrebbe, se dovesse prolungarsi troppo a lungo, avere esiti ben più
negativi.
la crisi europea del 2005
Molti avvenimenti hanno cambiato il mondo in questi ultimi anni: dalla caduta
del muro di Berlino nel 1989 e la successiva dissoluzione dell’Urss alla globalizzazione
instabile e non governata multilateralmente che ne è seguita, dagli attentati
dell’11 settembre 2001 negli Usa alle nuove conflittualità innescate
nel mondo e di cui la guerra in Iraq è traduzione eloquente; dall’emergenza
della Cina e dell’India che sposta il baricentro della futura economia verso
l’Asia ai periodici fallimenti dei negoziati commerciali nell’ambito dell’Organizzazione
mondiale del commercio (Omc) fino all’aggravarsi - ma le cose sono legate -
delle condizioni di vita nei Paesi che è ormai ipocrita chiamare in via
di sviluppo, soprattutto se si guarda all’Africa.
Quale la reazione dell’Unione europea davanti ad avvenimenti di così
grande rilievo? L’ultimo decennio registra risposte importanti dell’Ue: dalla
creazione della moneta unica degli anni Novanta, agli allargamenti del 1995
ad Austria, Finlandia e Svezia e nel 2004 ai dieci nuovi Paesi dell’Est e del
Mediterraneo fino alle coraggiose decisioni di aprire i negoziati di adesione
con Turchia, Croazia e Macedonia. Ma di tutti i tentativi di risposta, il più
importante è stato quello di dar vita a un processo costituzionale europeo
per mettere l’Ue in grado di governarsi a 25 e di affrontare le nuove sfide
che il mondo le impone.
Purtroppo è proprio qui che il motore si è “imballato”: i due
“no” dei referendum francese e olandese hanno di fatto imposto una sospensione
del processo di ratifica nonostante i quindici “sì” degli altri Paesi
che si sono espressi fino ad oggi e bisognerà ancora attendere prima
che si possa ripartire alla ricerca di una soluzione. E questo proprio in una
stagione del mondo che avrebbe un grande bisogno di un’Unione europea con un
profilo politico forte, capace di governare le sue economie in difficoltà
e ispirare le regole del commercio mondiale. Né è stata positiva
la vicenda del futuro bilancio 2007-2013 appena conclusa con risultati molto
modesti e con profonde ferite alla solidarietà tra i Paesi dell’Ue.
quali prospettive?
Per l’anno appena iniziato verrebbe da dire che non può che andare meglio,
ma sarebbe alto il rischio di un’illusione. Il 2006 si apre con l’Austria alla
guida dell’Ue per un semestre: è tradizione che i Paesi “piccoli” ottengano
spesso risultati migliori, perché meno appesantiti che non i “grandi”
dagli interessi nazionali e soprattutto perché hanno tutto da guadagnare
dall’essere associati ad un’Unione europea più forte. Purtroppo, però,
la regola ha cominciato a soffrire più di un’eccezione: il caso degli
insuccessi dell’ottima presidenza lussemburghese del primo semestre 2005 lo
ha dimostrato.
Cresciuta nell’Ue la dimensione intergovernativa, è diventato difficile
trovare un consenso di fronte all’opposizione di Paesi come il Regno Unito e
la Francia o al disimpegno della Germania di Schroeder. E così, per provare
ad anticipare il futuro, è proprio da questi Paesi che bisogna ricominciare,
anche perché sono quelli dove si annunciano importanti novità.
Nel Regno Unito si avvia a conclusione il lungo regno di Tony Blair, a cui si
prepara a succedere quel Gordon Brown, guardiano degli interessi inglesi anche
più di Blair e di questo sicuramente ancor meno europeista. In Francia
volge a un triste tramonto il regno di Jacques Chirac, sovrano francese con
velleità europee, e si annuncia una successione incerta ma che rischia
di premiare nelle elezioni del 2007 sensibilità politiche non proprio
favorevoli a un’accelerazione dell’Europa politica e che comunque dovranno fare
i conti con il “no” referendario. Una novità importante - e positiva
per l’Europa - è però venuta dalla Germania, con la recente elezione
al cancellierato di Angela Merkel. Il suo esordio nel Consiglio europeo non
è passato inosservato ed è stato decisivo per venire a capo del
negoziato “avvelenato” sulle prospettive finanziarie 2007-2013. Né meno
importanti politicamente gli impegni presi sul rilancio del processo costituzionale
che potrebbe avvenire nel primo semestre 2007, quando Merkel assumerà
la presidenza di turno dell’Ue in coincidenza con l’elezione del nuovo presidente
francese.
Nel frattempo ci saranno state le elezioni in Italia, Paese fondatore dell’Ue
che da tempo manca all’appello tra i protagonisti delle politiche europee, che
anzi sembra più sabotare che promuovere come ci ricordano le prolungate
infrazioni al Patto di stabilità e la denuncia dell’euro come capro espiatorio
di incapacità tutte italiane. Spesso in passato è avvenuto che
le elezioni del Parlamento europeo abbiano avuto una dimensione esclusivamente
nazionale. Magari, per riparare, sarebbe auspicabile che le imminenti elezioni
nazionali avessero anche positive ricadute europee e che consentano a questo
nostro Paese di tornare a contare in Europa. Ne ha bisogno l’Europa e ne abbiamo
urgente bisogno noi.
Franco Chittolina
IN CALO LA FIDUCIA DEI CITTADINI
Le difficoltà che hanno caratterizzato l’Ue nel 2005, soprattutto la
crisi del processo di ratifica del Trattato costituzionale e gli estenuanti
negoziati sulle prospettive finanziarie, hanno avuto un riflesso negativo sulle
opinioni dei cittadini europei. Da un sondaggio Eurobarometro, reso noto il
20 dicembre 2005, emerge infatti un calo di fiducia rispetto alle rilevazioni
effettuate nella scorsa primavera. I tre principali indicatori che riflettono
l’attitudine generale nei confronti dell’Ue sono in flessione: i pareri sull’immagine
dell’Ue e quelli sui benefici derivanti dall’appartenenza all’Ue registrano
una diminuzione di 3 punti percentuali, mentre solo il 50% degli intervistati
sostiene e considera positiva l’appartenenza all’Ue, percentuale che era del
54% nella primavera 2005. Gli europei più scettici sono austriaci (32%
di risposte favorevoli) e britannici (34%), i principali sostenitori sono lussemburghesi
(82%) e irlandesi (73%), mentre gli italiani si collocano nella media europea
(50%). Una tendenza negativa è rilevata anche nel livello di fiducia
verso la Commissione, il Parlamento e il Consiglio europei. In generale, l’opinione
pubblica resta favorevole al proseguimento della costruzione europea, in alcuni
casi persino più intensamente che nella primavera 2005, anche se emerge
un apprezzamento per il rallentamento del progetto europeo: sia il ritmo percepito
che quello desiderato per la costruzione dell’Ue sono diminuiti nel corso del
2005, regredendo ai livelli del 1997. Nonostante il rifiuto francese e olandese
al Trattato costituzionale, il sostegno espresso a una Costituzione per l’Ue
è aumentato nella seconda metà del 2005 (63%, + 2 punti) e i cittadini
europei restano convinti della necessità di una Costituzione che possa
migliorare il funzionamento dell’Ue e rafforzarne la posizione sulla scena internazionale.
In leggero declino il sostegno a un ulteriore allargamento, mentre resta solida
l’adesione alla politica europea di difesa e sicurezza (77%) e a una politica
estera comune (68%).
Commentando il sondaggio, la commissaria europea responsabile per le Relazioni
istituzionali e la Strategia di comunicazione, Margot Wallström, ha dichiarato:
«L’Eurobarometro ci fornisce una fotografia alla fine di un anno difficile.
L’Ue deve ora consolidare i risultati raggiunti e mostrare determinazione nel
conquistare i cuori e le menti dei suoi cittadini. Questo compito non è
mai stato importante come oggi. I cittadini vedono troppo interesse egoistico
da parte di ogni Stato membro, poca visione di insieme e solidarietà.
Io credo ancora che la gente voglia più Europa, con leader più
ispirati e buone politiche».
le priorità della presidenza
austriaca
«Mobilitare la fantasia e le energie di tutti i 25 Stati»:
così il governo austriaco intende rilanciare il progetto di costruzione
europea dopo le pesanti battute d’arresto del 2005. Assumendo la presidenza
di turno dell’Ue per il primo semestre 2006, il cancelliere austriaco Wolfgang
Schuessel ha presentato il suo programma che sarà concentrato innanzitutto
sulle riforme economiche per stimolare la crescita e l’occupazione. Secondo
Schuessel, per rilanciare l’Europa servono «azioni concrete», ad
esempio concentrandosi sulla ricerca e promuovendo le piccole e medie imprese
europee che rappresentano il principale soggetto per la creazione di posti di
lavoro. La questione della crescita e dell’occupazione è centrale per
la presidenza dell’Ue perché, come dichiara il presidente di turno, «se
vogliamo creare una ripresa atmosferica e psicologica dell’Europa dobbiamo ascoltare
le preoccupazioni dei cittadini». La seconda parte della presidenza
austriaca sarà invece dedicata a una riflessione sul futuro dell’Europa
dopo lo stallo del processo costituzionale, con un Vertice di bilancio a giugno.
Dichiarando che «la Costituzione non è morta, ma non è
neanche in vigore», Schuessel ha sottolineato l’importanza di concentrarsi
sullo scontento manifestato dai cittadini europei. Così, ha detto, accanto
alle questioni meramente istituzionali servono un maggior coinvolgimento dei
cittadini, maggior sussidiarietà e una definizione dei «confini
dell’Unione europea» perché, pur dicendosi contrario a un’Europa
“a più velocità”, è necessario ragionare sui futuri allargamenti
in modo da «non compromettere la capacità di accoglienza»
dell’Ue. Confermando in qualche modo la contrarietà espressa nei mesi
scorsi dall’Austria all’ingresso nell’Ue della Turchia.
sinergie austro-finlandesi
La presidenza di turno austriaca ha inoltre annunciato una stretta collaborazione
con il governo finlandese, che presiederà l’Ue nel secondo semestre 2006.
Il bilancio sul percorso costituzionale segnerà il passaggio di consegne
tra le due presidenze che, a seconda di come si sarà svolto il dibattito
tra gli Stati membri e le istituzioni europee, decideranno di comune accordo
come proseguire il processo di ratifica del Trattato.
Altra questione comune riguarda la traduzione in necessari strumenti giuridici
dell’accordo di massima raggiunto nel dicembre scorso sulle prospettive finanziarie
per il periodo 2007-2013, strumento fondamentale per il finanziamento delle
politiche dell’Ue nel medio periodo. Per quanto riguarda crescita e occupazione,
poi, la riforma della Strategia di Lisbona prevede per il 2006 l’attuazione
dei nuovi programmi nazionali e le azioni che l’Ue dovrà adottare per
integrarli. Così come sarà centrale la questione del completamento
del mercato interno, soprattutto rispetto ai settori dei servizi, dell’energia,
delle telecomunicazioni e dei servizi finanziari, con priorità per il
problema energetico diventato di estrema attualità (al limite dell’emergenza)
dopo le tensioni internazionali di inizio anno in merito al gas russo. Le presidenze
austriaca e finlandese dovranno anche garantire l’attuazione del Patto di stabilità
e crescita, in base a quanto stabilito nel corso del 2005, facendo in modo che
gli Stati membri rispettino il contenimento dei rispettivi disavanzi di bilancio.
In materia di libertà, sicurezza e giustizia, proseguirà il tentativo
di coordinare gli interventi sull’immigrazione e contro il terrorismo, anche
se la questione delle garanzie e dei diritti dovranno essere affrontate seriamente,
ancor di più dopo i casi di Lampedusa, delle enclave spagnole in Marocco
e dei “voli Cia” che hanno sollevato forti critiche anche da parte dell’Europarlamento
e del Consiglio d’Europa. Sull’ulteriore allargamento dell’Ue dovrà essere
portata a termine la preparazione dell’ingresso di Romania e Bulgaria (prevista
nel 2007) e continuati i negoziati con Croazia e Turchia, mentre a livello internazionale
risultano particolarmente delicate la questione iraniana, quella dei negoziati
sul commercio in ambito Wto e il necessario rilancio del multilateralismo.
INFORMAZIONI:
http://www.eu2006.at/en/The_Council_Presidency/Priorities_Programmes/index.html
PROGRAMMA 2006 DELLA COMMISSIONE
Alla fine del dicembre scorso anche la Commissione europea ha indicato il suo
programma di lavoro per il 2006, confermando gli obiettivi strategici che si
era posta all’inizio del suo mandato: prosperità, solidarietà,
sicurezza e ruolo di partner mondiale per l’Europa. L’anno appena iniziato è
considerato cruciale dalla Commissione per concretizzare la Strategia di Lisbona
sulla crescita e l’occupazione, per questo è proposta una “nuova generazione”
di programmi in settori quali i Fondi strutturali, lo sviluppo rurale, l’innovazione,
la ricerca e l’istruzione nonché la predisposizione di un nuovo programma
di ricerca e la creazione di un Istituto europeo di tecnologia. La Commissione
intende migliorare la mobilità geografica e professionale con l’Anno
europeo della mobilità dei lavoratori e mediante la trasparenza, il trasferimento
e il riconoscimento delle qualifiche all’interno dell’Unione, impegnandosi anche
per azioni in materia di aiuti di Stato, imprenditorialità e rafforzamento
della capacità delle Pmi di crescere e creare occupazione. In ambito
di sostenibilità ambientale, la Commissione conferma l’importanza dei
Piani nazionali di ripartizione e l’estensione del sistema di scambio delle
quote di emissione, nel quadro dei negoziati multilaterali sul clima. È
prevista anche una maggior attenzione alla protezione dei cittadini, attraverso
azioni transfrontaliere coordinate nell’ambito della sicurezza alimentare e
della protezione civile, mentre saranno potenziate l’Agenzia per la sicurezza
aerea e l’Agenzia ferroviaria. Oltre ai vari impegni sullo scenario internazionale,
dove dovranno essere concretizzate le promesse fatte nel 2005 a favore della
cooperazione allo sviluppo, la Commissione ha annunciato di impegnarsi per una
migliore regolamentazione del suo operato: semplificazione, ammodernamento,
consultazione e attenta valutazione dell’impatto delle politiche costituiscono
obiettivi fondamentali. Così come tutte le istituzioni europee dovranno
accrescere il loro impegno per una migliore comunicazione con i cittadini sulle
questioni europee, secondo quanto indicato dal Libro bianco sulla comunicazione.
INFORMAZIONI: http://www.europa.eu.int/comm/index_it.htm
scontro istituzionale sulle prospettive finanziarie
Tra le molte questioni che riguardano il futuro dell’Ue
resta aperta quella relativa a come e quanto saranno finanziate le politiche
necessarie per il percorso di costruzione europea, cioè le cosiddette
prospettive finanziarie 2007-2013. Dopo il fallimento del Consiglio europeo
del giugno 2005, in cui emersero forti divergenze tra gli Stati membri sia sull’entità
delle entrate che ciascun Paese deve versare nel bilancio dell’Ue sia sull’articolazione
della spesa, con una generale affermazione dell’approccio intergovernativo a
scapito di quello comunitario, un faticoso accordo è stato raggiunto
nel corso del Consiglio europeo del 16 dicembre. La questione è però
stata riaperta dal Parlamento europeo, che il 18 gennaio ha respinto la proposta
del Consiglio dando così avvio a una complessa negoziazione tra le istituzioni
europee.
l’accordo del Consiglio
Al termine di lunghe trattative tra i vari rappresentanti dei governi europei,
l’accordo stabilito dal Consiglio europeo di dicembre sembrava aver scongiurato
l’ennesima crisi dell’Ue, avviando, seppur con molti limiti, un percorso di
trasferimento di risorse finanziarie dai vecchi ai nuovi Stati membri. In pratica,
il governo britannico ha accettato una riduzione di 10 miliardi di euro in sette
anni dello “sconto” sui contributi all’Ue di cui gode da 20 anni; il governo
francese ha acconsentito l’anticipo al 2008-2009 della discussione sulla politica
agricola comune (Pac), che avrebbe dovuto svolgersi nel 2013; il governo tedesco,
con la neo-premier Angela Merkel, ha prima mediato sul contenzioso anglo-francese
e quindi messo a disposizione dei nuovi Stati membri 100 milioni di aiuti regionali
già assegnati ai Länder tedeschi.
Si è così stabilita una spesa complessiva per il periodo 2007-2013
di 862,363 miliardi di euro, pari all’1,045% del Pil, spesa calcolata per un’Ue
a 27 dato l’ingresso di Romania e Bulgaria nel 2007. La quota di spesa concordata
si colloca più o meno a metà strada tra la proposta della presidenza
lussemburghese dell’Ue (primo semestre 2005) e quella avanzata dalla presidenza
britannica (secondo semestre), considerata inaccettabile da molti Stati membri.
Il dato che emerge è il netto calo rispetto al quadro finanziario precedente
in cui, per un’Ue di soli 15 Stati membri e non di 27 come sarà nei prossimi
anni, il massimale era fissato all’1,24% del Pil.
Le spese sono state raggruppate in alcuni capitoli: il primo per finanziare
l’applicazione della Strategia di Lisbona su crescita e occupazione, con un
impegno compreso tra gli 8,2 miliardi di euro nel 2007 e i 12,6 miliardi nel
2013; il secondo dedicato alla politica di coesione, alla luce delle disparità
economico-sociali derivanti dall’allargamento, con impegni per 43 miliardi di
euro nel 2007 che raggiungeranno i 45,3 miliardi nel 2013; altro capitolo è
dedicato a tutela e gestione delle risorse naturali (agricoltura, sviluppo rurale,
pesca e ambiente), il cui tetto di spesa fu concordato nel 2002; in materia
di libertà, sicurezza e giustizia si passa dai 600 milioni di euro del
2007 a 1,4 miliardi nel 2013; stanziamenti per un massimo di 520 milioni di
euro all’anno sono previsti per una serie di azioni riguardanti la cultura,
i giovani, l’audiovisivo, la salute e la tutela dei consumatori; l’azione esterna
dell’Ue (preadesione, stabilità, cooperazione allo sviluppo e cooperazione
economica, partenariato e vicinato europeo, aiuti umanitari e assistenza macrofinanziaria)
sarà finanziata con 6,3 miliardi di euro nel 2007 che saliranno a 8 miliardi
nel 2013; infine la spesa per l’amministrazione delle istituzioni, che non potrà
superare i 6,7 miliardi di euro nel 2007 e i 7,7 miliardi nel 2013.
il rifiuto del Parlamento
L’accordo raggiunto dal Consiglio europeo non ha però convinto il Parlamento
europeo, che il 18 gennaio ha espresso il suo rifiuto aprendo il negoziato interistituzionale,
dal momento che l’approvazione definitiva del bilancio quinquennale deve avere
il parere positivo dei deputati europei. Secondo il Parlamento, la posizione
adottata dal Consiglio non garantisce all’Ue le condizioni necessarie per far
fronte alle nuove sfide e sviluppare un valore aggiunto europeo a favore dei
cittadini. L’aula parlamentare non condivide l’atteggiamento degli Stati membri,
che «combattono per preservare i propri interessi nazionali piuttosto
che per generare una dimensione europea», e considera le conclusioni
del Consiglio troppo incentrate «sulle politiche tradizionali» a
scapito del futuro dell’Ue, perché «non garantiscono un bilancio
europeo che rafforzi la prosperità, la solidarietà e la sicurezza
in futuro, né offrono un meccanismo di flessibilità specifico
né un ruolo del Parlamento europeo nella revisione». Così,
l’Europarlamento dichiara la sua volontà di avviare «negoziati
costruttivi» con il Consiglio, attraverso la mediazione della presidenza
di turno austriaca e sulla base delle nuove proposte avanzate dalla Commissione.
Il Parlamento intende discutere sia sull’ammontare complessivo delle risorse
finanziarie, che auspica essere maggiore di quello proposto dal Consiglio, sia
riguardo alle priorità nella destinazione delle spese, privilegiando
innovazione, crescita e ruolo esterno dell’Unione europea.
energia: Europa
a sovranità limitata
Con la temperatura particolarmente bassa di questo inverno
sono saliti i prezzi dell’energia. È stata la conseguenza della legge
del mercato su domanda e offerta, magari sostenuta da una speculazione cui ci
hanno abituati i distributori dell’energia e la fiscalità perversa che
l’accompagna, oltre che i prezzi imposti all’origine dai Paesi produttori. E
tuttavia, in prospettiva e con scadenze ravvicinate, è al comportamento
di questi ultimi che dobbiamo guardare con particolare attenzione.
Due vicende, una solo provvisoriamente conclusa e l’altra appena agli inizi,
dovrebbero aprirci gli occhi sul futuro del mercato dell’energia e il suo impatto
sull’Europa: da una parte il contenzioso sulla fornitura di gas all’Ucraina
e alle altre repubbliche ex sovietiche da parte della Russia, dall’altra il
conflitto in corso tra l’Iran e l’occidente (Ue e Usa) sulla riapertura delle
centrali nucleari.
gas russo e nucleare iraniano
La vicenda del gas fornito all’Ucraina dalla Russia è nota: Gazprom,
gigante monopolista controllato dallo Stato russo, ha messo fine ai “prezzi
politici” della fornitura del gas in provenienza dalla Russia verso ex-Paesi
dell’Urss, oggi anche sempre più ex-amici della Russia. Il segnale mandato
all’Ucraina è chiaro: il raddoppio del prezzo del gas (grazie al congelamento
del basso prezzo del gas che per 2/3 proviene dall’Asia centrale, ma oggi con
passaggio obbligato in Russia) è anche il prezzo politico da pagare alla
presa di distanza dell’Ucraina dalla Russia dopo la “rivoluzione arancione”
del 2004. Ne ha fatto le spese anche la Georgia, dopo la “rivoluzione delle
rose” del 2003.
Insomma, la Russia dopo aver congelato gli arsenali militari anche per gli altissimi
costi, brandisce l’arma energetica di cui dispone, non solo come produttrice
ma anche come distributrice (vedi box), direttamente contro gli ex Paesi amici
e indirettamente verso l’Europa che, non apprezzata da Mosca, “simpatizza” verso
questi stessi Paesi.
Una situazione diversa quella dell’Iran ma con esiti geopolitici simili e un’analoga
concezione dell’energia come nuova arma nei conflitti economici che si annunciano
in Eurasia. Qui la vicenda è aggravata dal possibile utilizzo militare
dell’energia nucleare e non è disgiunta dalla rilevanza strategica di
un Paese grande produttore di petrolio e snodo importante nel mondo islamico
a dominante sciita. Per chi non ne fosse convinto, basterebbe guardare a come
stanno reagendo alle “provocazioni” iraniane i principali attori mondiali: ferma
ma alla ricerca del dialogo l’Ue, minacciosi gli Usa, imbarazzata ma non ostile
la Russia e sicuramente comprensiva se non alleata la Cina, grande divoratrice
di energia e, a questo titolo, particolarmente dipendente dall’Iran. La prova
del nove di queste differenze l’avremo presto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu,
dove si annuncia improbabile l’unanimità su eventuali sanzioni verso
l’Iran.
energia e sovranità in Europa
La preoccupazione per l’energia in Europa non data da oggi: la creazione della
Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) nel 1951 e della Comunità
europea dell’energia atomica (Euratom) nel 1957, dopo la crisi di Suez, testimoniano
come l’Unione europea abbia fin dai suoi inizi avuto coscienza del problema.
Soltanto che questa consapevolezza non si è tradotta in politiche efficaci
per la riduzione della nostra dipendenza energetica: negli anni Cinquanta importavamo
in Europa il 20% del nostro fabbisogno, oggi siano al 50% e, senza interventi
efficaci, nel 2030 arriveremo al 70%. Quali le ragioni di questa deriva? Da
una parte, il forte sviluppo economico dell’UE aggravato da una cultura dei
consumi energetici fuori controllo, anche grazie al basso costo dell’energia
fino alla crisi petrolifera del 1973, dall’altra l’incapacità dei Paesi
dell’Ue a dotarsi di una politica energetica comune in grado di guardare oltre
gli interessi immediati delle singole economie nazionali. Ci si è così
limitati a politiche di incitamento alla riduzione dei consumi e ad uno sviluppo
modesto delle energie rinnovabili. L’argomento è tornato recentemente
sul tavolo del Consiglio europeo di Hampton Court nell’ottobre scorso e si sta
intensificando l’iniziativa della Commissione europea cui spetta di formulare
proposte per un rilancio della politica energetica comunitaria.
serve una politica comune
Il segnale venuto dalla Russia, le molteplici minacce in provenienza dall’area
mediorientale e l’instabilità politica di molti Paesi dell’Asia centrale,
grande serbatoio di energia, provocheranno finalmente un sussulto decisivo nell’Ue?
È consentito sperarlo, ma restando prudenti nel pronostico e non dimenticando,
come ci ricordano osservatori attenti, che la questione essenziale è
quella delle relazioni tra l’Europa e i Paesi fornitori. Essa attiene alla geostrategia
e quindi alla politica estera. In altre parole, non ci sarà politica
comune in materia di energia fin quando l’Europa non sarà dotata di una
diplomazia comune. Come dire che fino a quando i Paesi dell’Ue continueranno
nelle loro “finzioni” di sovranità, l’Europa sarà condannata anche
dalla sua crescente dipendenza energetica a una mortificante sovranità
limitata.
I NUMERI DEL GAS
Le riserve mondiali di gas ammontano a circa 178.000 miliardi di metri cubi
e la Russia è il primo Paese al mondo con oltre 46.000 miliardi, di cui
oltre la metà di proprietà della Gazprom. Dati forniti dall’Eni
a inizio 2005 vedono al secondo posto per riserve di gas l’Iran, con 26.000
miliardi di metri cubi, seguito dal Qatar con 25.000. La Russia è anche
il primo produttore al mondo: nel 2003 la produzione mondiale ammontava a circa
2700 miliardi di metri cubi l’anno, quasi un quarto dei quali (oltre 600 miliardi)
prodotti dalla Russia, seguita da Usa (541 miliardi) e Canada (182 miliardi).
La società russa Gazprom, oltre a possedere più della metà
delle riserve russe, con 545 miliardi di metri cubi all’anno produce circa l’85%
di tutto il gas russo e il 20% circa di quello mondiale, e intende giungere
a una produzione di 630 miliardi di metri cubi annui entro il 2030. Per quanto
riguarda invece i consumi di gas, nel 2003 la domanda mondiale è stata
di 2600 miliardi di metri cubi, con gli Usa primi consumatori (621 miliardi),
seguiti da Russia (411 miliardi) e Regno Unito (circa 100 miliardi). L’Italia,
che possiede riserve per 190 miliardi di metri cubi, è il nono Paese
consumatore con circa 77 miliardi di metri cubi annui utilizzati.
Nel novembre 2005 la Russia aveva deciso di rinegoziare
i contratti del gas con le ex repubbliche sovietiche, fino ad allora caratterizzati
da prezzi decisamente inferiori a quelli di mercato che le autorità russe
impongono agli altri Paesi-clienti, ad esempio molti Stati membri dell’Ue.
Nel caso dell’Ucraina, la Russia aveva proposto di quadruplicare il prezzo (da
50 a 220 dollari per 1000 metri cubi), stabilendo la fine del 2005 come limite
massimo per la negoziazione. Dal canto suo, l’Ucraina rivendicava un incremento
minore del prezzo, in linea con quello già pattuito da Mosca con le altre
ex repubbliche sovietiche che pagano da 100 a 160 dollari per 1000 metri cubi,
e annunciava l’istituzione di una tassa del 15% sul gas russo che attraversa
il suo territorio per raggiungere i mercati europei.
La Russia però, che non ha gradito il cambio di governo verificatosi
in Ucraina nel dicembre 2004, accusava le autorità di Kiev di prelievi
abusivi sul gas russo diretto nell’ovest europeo e, di fronte al protrarsi delle
trattative e delle polemiche, il 1° gennaio 2006 decideva di interrompere
le forniture di gas verso l’Ucraina.
Dopo alcuni giorni di negoziato, il 4 gennaio era annunciato l’accordo sul prezzo
del gas tra i gestori dell’energia dei due Paesi, la russa Gazprom e l’ucraina
Naftogaz.
Il compromesso raggiunto prevede un accordo di 5 anni in cui la Russia venderà
il gas a 230 dollari per 1000 metri cubi, mentre l’Ucraina lo acquisterà
a 95 dollari: il “trucco” è reso possibile dall’intermediazione della
società russo-ucraina RosUkrEnergo, che acquisterà il gas russo
per poi rivenderlo mescolato a quello acquistato da Turkmenistan, Uzbekistan
e Kazakistan a prezzo decisamente inferiore (circa 60 dollari).
Lo stesso gas “misto” sarà venduto ad altri Paesi europei al prezzo di
230 dollari, così da far tornare i conti della RosUkrEnergo. È
stabilito anche l’aumento del 55% delle tariffe di transito (da 1,09 a 1,65
dollari per 1000 metri cubi e 100 chilometri di percorso), che riguarderà
sia il gas russo che attraversa l’Ucraina per giungere in Europa, sia quello
centroasiatico che passa in Russia per raggiungere l’Ucraina.
L’accordo è però ritenuto ambiguo dall’opposizione politica ucraina,
che lo considera un cedimento al potere russo (RosUkrEnergo è controllata
da Gazprom) e promette battaglia in vista delle elezioni del marzo prossimo.
Non si erano ancora placate le polemiche tra Russia e Ucraina che ne sono nate
di nuove e altrettanto forti al confine meridionale della Russia. Il 22 gennaio
alcune esplosioni, verificatesi nella regione caucasica del territorio russo,
hanno danneggiato tubature di gas e linee ad alta tensione interrompendo i rifornimenti
di gas ed elettricità a Georgia e Armenia.
Mentre le autorità russe hanno parlato di «attentati», quelle
georgiane hanno subito accusato la Russia di «sabotaggio» e di «ricatto»,
motivato dai rapporti tesi tra i due Paesi.
Il governo russo, che oltre alla “rivoluzione arancione” ucraina del 2004 non
ha gradito la “rivoluzione colorata” georgiana del 2003 perché entrambe
volte a rapporti privilegiati con Ue e Usa, accusa quello georgiano di scarsa
collaborazione sulla questione cecena e non dimentica lo smantellamento delle
basi militari ex sovietiche; Tbilisi, dal canto suo, accusa Mosca di sostenere
il secessionismo in alcune regioni della Georgia.
Il governo armeno, più in sintonia con quello russo, non ha commentato
l’interruzione delle forniture, nonostante abbia subito il raddoppio del prezzo
del gas russo come Georgia e Ucraina.
l'Ue chiede chiarezza sui "voli segreti" della Cia
«Centinaia di voli organizzati dalla Cia sono
transitati in numerosi Paesi europei ed è altamente improbabile che i
governi europei, o almeno i loro servizi segreti, non ne siano stati al corrente».
È grave la denuncia contenuta nel Rapporto reso noto il 24 gennaio scorso
dal Consiglio d’Europa, redatto dall’apposita commissione istituita due mesi
prima e presieduta dal deputato svizzero Dick Marty, anche perché parla
di «numerosi indizi, coerenti e convergenti» dell’esistenza
di un sistema di «delocalizzazione o di subappalto della tortura».
Il Consiglio d’Europa, però, pur avendo un forte “peso” morale non ha
nessun potere d’investigazione, dunque la sua è semplicemente una conferma
autorevole di quanto denunciato nei mesi scorsi da organizzazioni per i diritti
umani e organi d’informazione di tutto il mondo e su cui Commissione e Parlamento
europei intendono fare chiarezza: i servizi segreti statunitensi (Central Intelligence
Agency - Cia), su mandato dell’amministrazione Bush, hanno organizzato negli
ultimi anni un sistema di sequestri e trasferimenti di sospetti terroristi in
luoghi “segreti” per svolgere interrogatori senza rispettare le norme del diritto
internazionale, con la probabile collaborazione di numerosi governi e servizi
segreti anche europei.
“siti neri” e voli sospetti
La questione fu sollevata nel novembre 2005 dal quotidiano statunitense “The
Washington Post”, che in un’inchiesta rivelava l’esistenza di una rete mondiale
di prigioni segrete denominate «black sites» (“siti neri”), creata
dalla Cia dopo l’11 settembre 2001, che si estenderebbe da Afghanistan e Thailandia
fino a Stati dell’Europa orientale e dove sarebbero detenuti oltre 100 presunti
terroristi catturati dai servizi segreti statunitensi in vari Paesi. L’organizzazione
per i diritti umani Human Rights Watch aggiunse che due siti sospetti erano
l’aeroporto Szymany in Polonia e la base militare Michail Kogalniceanu in Romania,
mentre altre inchieste e denunce iniziarono a rivelare il passaggio in scali
europei degli aerei utilizzati dalla Cia per il trasferimento dei prigionieri.
Il quotidiano spagnolo “El Pais” scrisse di numerosi atterraggi e decolli di
voli della Cia dalle Baleari, dalle Canarie e dall’Andalusia tra il 2004 e il
2005. Il quotidiano britannico “The Guardian”, ottenendo dall’autorità
statunitense per l’aviazione civile (Federal Aviation Administration) il permesso
di visionare le registrazioni dei voli, denunciò che 26 velivoli della
Cia avevano compiuto oltre 300 missioni in Europa (96 atterraggi in Germania,
circa 80 nel Regno Unito, 15 nella Repubblica Ceca, 2 in Francia e uno in Polonia).
Il settimanale tedesco “Der Spiegel”, con ammissioni delle autorità tedesche,
svelò almeno 437 passaggi in Germania di aerei dei servizi segreti statunitensi,
mentre secondo Amnesty International i voli da e per l’Europa sono stati circa
800. Intanto, inquirenti di tutti questi e di molti altri Paesi europei (tra
cui l’Italia, dove la procura milanese ha emesso nel giugno 2005 un ordine di
cattura internazionale per 13 agenti della Cia che nel febbraio 2003 sequestrarono
a Milano l’egiziano Abu Omar) hanno aperto indagini, il Consiglio d’Europa e
il Parlamento europeo hanno istituito commissioni d’inchiesta, mentre la Commissione
europea e la presidenza dell’Ue hanno chiesto chiarimenti all’amministrazione
Usa.
Del Consiglio d’Europa si è detto in apertura e del Parlamento si dirà
di seguito, mentre restano alcune perplessità sull’effettiva esigenza
di chiarezza da parte di presidenza e Commissione: la prima perché manifestata
durante il turno di presidenza britannico, cioè del più fedele
alleato statunitense che pare impossibile non sapesse nulla; la seconda perché
ha visto il meritorio impegno del commissario Franco Frattini, che però
durante i voli sospetti e il sequestro di Abu Omar a Milano era il ministro
degli Esteri italiano.
Intanto, di fronte alle accuse l’amministrazione Bush sostiene che trasferire
detenuti da un Paese all’altro al di fuori di un procedimento legale è
consentito dal diritto internazionale, mentre le organizzazioni per i diritti
umani ricordano che il trasferimento di prigionieri verso Paesi dove rischiano
di subire torture e maltrattamenti è una violazione diretta e flagrante
del diritto internazionale.
l’inchiesta dell’Europarlamento
Nel gennaio scorso, il Parlamento europeo ha istituito una commissione composta
da 46 europarlamentari e con mandato di un anno che, parallelamente a quella
del Consiglio d’Europa, dovrà chiarire la controversa questione delle
prigioni e dei voli “segreti” utilizzati dalla Cia in Europa. Secondo l’Europarlamento,
«la lotta al terrorismo non può essere vinta sacrificando proprio
quei principi che il terrorismo cerca di distruggere. Deve essere condotta con
mezzi legali e vinta nel rispetto del diritto internazionale, con un atteggiamento
responsabile da parte dei governi e dell’opinione pubblica». Condannando
«energicamente» qualsiasi ricorso alla tortura, inclusi i trattamenti
crudeli, inumani o degradanti, il Parlamento invita il Consiglio e la Commissione
a fornire chiarimenti in merito a un presunto accordo che l’Ue avrebbe concluso
con gli Usa nel 2003 per consentire a questi ultimi l’accesso a strutture di
transito “speciali”. Inoltre invita i governi europei a mettere in atto «ogni
sforzo» per indagare e fornire tutte le informazioni necessarie.
La commissione raccoglierà e analizzerà informazioni per appurare
se la Cia o servizi di intelligence di Paesi terzi abbiano effettuato rapimenti,
trasferimenti, detenzioni in centri segreti, torture, trattamenti inumani o
degradanti di prigionieri sul territorio dell’Ue o su quello di Paesi candidati,
o se abbiano usato il territorio europeo per voli da un Paese all’altro. Dovrà
inoltre verificare se queste azioni, condotte nella lotta al terrorismo, possano
essere considerate in violazione dell’articolo 6 del Trattato dell’Ue, di alcune
norme della Convezione europea sui diritti umani e della Carta dei diritti fondamentali
e di altri accordi internazionali, incluso quello fra Ue e Usa che regola l’estradizione
e la mutua assistenza giudiziaria. «La piena trasparenza e il vicendevole
rispetto dei principi fondamentali del diritto - sostiene il Parlamento europeo
- sono essenziali per l’ulteriore rafforzamento delle relazioni Ue-Usa e per
la cooperazione nella lotta contro il terrorismo».
INFORMAZIONI:
www.coe.int e www.europarl.eu.int
AMNESTY: 800 VOLI DELLA CIA IN EUROPA
Il 14 dicembre 2005, l’organizzazione Amnesty International ha inviato al Consiglio
europeo una lettera aperta nella quale mette in dubbio l’attuale strategia europea
in materia di diritti umani. A fronte delle continue rivelazioni di organi d’informazione
europei e statunitensi che fanno presumere una complicità degli Stati
membri dell’Ue nel trasferimento e nella detenzione di persone sospette da parte
della Cia e delle numerose indagini giudiziarie avviate in Europa sui centri
segreti di detenzione situati in territorio europeo, Amnesty ritiene che la
reazione delle istituzioni europee sia stata insoddisfacente e che l’Ue ha il
dovere legale, morale e politico di assicurare che nessuno Stato membro sia
direttamente o indirettamente coinvolto in “sparizioni” e torture. Secondo Dick
Oosting, direttore dell’ufficio di Amnesty International presso l’Ue, «la
formula retorica “combattere il terrorismo rispettando i diritti umani” non
funziona più. Se i leader europei nascondono la testa sotto la sabbia,
viene messa in gioco la credibilità dell’Ue, sia al suo interno che all’estero».
Amnesty aveva denunciato 800 passaggi in Europa, tra il settembre 2001 e il
settembre 2005, di almeno 6 aerei utilizzati dalla Cia per il trasferimento
“segreto” di prigionieri, spesso destinati in Paesi dove hanno potuto subire
maltrattamenti e torture o “sparire”.
INFORMAZIONI: www.amnesty.it
In Europa cresce il consumo di cocaina e cannabis, è
stabile ma elevato quello di amfetamine, in calo quello di eroina, mentre è
molto diffusa la poliassunzione di sostanze, comprese alcol e tabacco. Sono
questi gli elementi principali che emergono dal Rapporto annuale sul consumo
di droghe pubblicato nel novembre 2005 dall’Osservatorio europeo con sede a
Lisbona (Emcdda-Oedt).
molta cannabis
Il consumo di droghe nell’Ue resta un fenomeno diffuso soprattutto tra i giovani
di sesso maschile. I dati a disposizione riferiscono di almeno 3 milioni di
consumatori quotidiani di cannabis, che continua a essere la sostanza più
usata. Sebbene dalla metà degli anni Novanta sia prevalso un andamento
crescente, alcuni Paesi mostrano un modello più stabile, come ad esempio
il Regno Unito, o variazioni esigue in Paesi a bassa prevalenza, come Svezia
e Finlandia a Nord e Grecia e Malta a Sud. La maggior parte degli aumenti del
consumo di cannabis osservati interessa i nuovi Stati membri, mentre Repubblica
Ceca, Spagna e Francia hanno raggiunto il Regno Unito nel gruppo di Paesi «ad
alta prevalenza».
anfetamine e cocaina
In molti Paesi l’ecstasy ha superato le anfetamine come seconda droga più
usata in Europa dopo la cannabis, ma i dati del Regno Unito (primo consumatore
europeo di queste sostanze) mostrano una flessione del consumo di entrambe,
soprattutto delle anfetamine. Un «imponente» aumento generale è
invece registrato per l’importazione e il consumo di cocaina, mentre crescono
i problemi di salute legati a questa sostanza che riguarda anche il 10% circa
delle domande di trattamento in Europa. L’Osservatorio stima che circa 9 milioni
di europei (3% di tutta la popolazione adulta) abbiano provato la cocaina almeno
una volta, 3 milioni ne abbiano fatto uso nell’ultimo anno e 1,5 milioni l’abbiano
assunta nell’ultimo mese. Il consumo si concentra principalmente tra i giovani
adulti (15-34 anni), soprattutto maschi residenti in zone urbane.
consumo problematico
L’eroina rimane la droga principale per la quale i tossicodipendenti chiedono
di entrare in terapia nella maggior parte dei Paesi dell’Ue. In termini di nuovi
consumatori di eroina e di consumo per via parenterale, la situazione attuale
sembra più positiva rispetto a quella degli anni Novanta. Esistono segnali
di stabilizzazione e di invecchiamento della popolazione, il che riflette probabilmente
una riduzione dell’incidenza. Tuttavia, in alcuni dei nuovi Stati membri, dove
il consumo di eroina è un fenomeno più recente, l’uso per via
parenterale continua a essere la modalità predominante dell’assunzione
di oppiacei. Secondo le stime attuali, nell’Ue esistono tra gli uno e i 2 milioni
di consumatori problematici di droghe, di cui un numero compreso tra 850.000
e 1,3 milioni riguarda consumatori recenti di droga per via parenterale.
la poliassunzione
L’uso correlato di varie sostanze psicoattive, comprese alcol e tabacco, è
una delle caratteristiche principali del problema delle droghe in Europa. La
cannabis è spesso fumata col tabacco, ad esempio, con implicazioni sia
in termini di danni sia rispetto alle attività di prevenzione. Le analisi
tossicologiche dei decessi collegati al consumo di stupefacenti rivelano spesso
la presenza di più sostanze, mentre è stato dimostrato che il
consumo concomitante di alcol aumenta i rischi associati all’uso di eroina e
di cocaina. Inoltre, concentrarsi sugli andamenti tipici di una sostanza può
essere fuorviante se è ignorata l’interazione tra diversi tipi di droghe.
Secondo l’Osservatorio europeo sarebbe opportuno valutare la potenziale sovrapposizione
del consumo di sostanze stimolanti diverse, «nonché capire in quale
misura i cambiamenti osservati siano riconducibili a una variazione dei modelli
di consumo». In generale, la stragrande maggioranza di coloro che in Europa
si rivolgono a comunità terapeutiche per un problema di droga fa uso
di più sostanze stupefacenti: «È quindi necessario comprendere
l’impatto della poliassunzione sull’efficacia degli interventi in futuro».
INFORMAZIONI:
http://www.emcdda.eu.int
piano d'azione europeo
sull'immigrazione legale
Dopo il pacchetto di misure sull’immigrazione presentato
nel settembre 2005 (vedi euronote n. 37/2005), la
Commissione europea ha adottato alla fine dello scorso anno anche un Piano d’azione
sull’immigrazione legale, secondo quanto previsto dal Programma dell’Aia su
libertà, sicurezza e giustizia che chiedeva all’esecutivo europeo di
presentare, entro il 2005, «un programma politico in materia di migrazione
legale che includa procedure di ammissione che consentano di reagire rapidamente
alla domanda fluttuante di manodopera straniera nel mercato del lavoro».
Incentrato principalmente sulla migrazione economica, il Piano è finalizzato
a offrire una panoramica delle iniziative, legislative e non, che la Commissione
intende promuovere nel periodo 2006-2009. Sono individuate quattro sfere di
azioni: una sezione legislativa per disciplinare alcune condizioni di entrata
e di soggiorno dei cittadini non comunitari ai fini dell’occupazione; azioni
e politiche per promuovere l’acquisizione di competenze e lo scambio di informazioni
nel settore dell’immigrazione; politiche e finanziamenti finalizzati a sostenere
e migliorare l’integrazione dei migranti economici e dei loro familiari nel
mercato del lavoro e nella società di accoglienza; misure per una gestione
più efficiente dei flussi migratori internazionali che richiedono la
cooperazione e il sostegno dei Paesi di origine e dei migranti. Nel corso del
2006 saranno effettuati studi su temi specifici e avranno luogo dibattiti sul
modo di procedere, mentre le iniziative concrete inizieranno a partire dal 2007.
«Questo piano d’azione è particolarmente importante, dal momento
che è il risultato di un lungo processo partito dal basso - ha dichiarato
il commissario Franco Frattini, responsabile europeo in materia di Giustizia,
Libertà e Sicurezza - Abbiamo ascoltato con attenzione tutti gli operatori
del settore, e segnatamente i sindacati, le organizzazioni dei datori di lavoro,
i governi, il Parlamento europeo, le Ong e il Comitato economico e sociale.
Grazie ai loro contributi, la Commissione è ora in grado di spiegare
in quale modo intende far fronte alle sfide economiche e demografiche e di proporre
un pacchetto globale di misure, che dovrebbe permettere una migliore gestione
del fenomeno dell’immigrazione in tutte le sue diverse angolature. Sono fermamente
convinto che la migrazione legale e l’integrazione siano due concetti indissolubili
e che devono rafforzarsi a vicenda». L’altro responsabile del Piano d’azione
insieme a Frattini, il commissario europeo a Occupazione e Affari sociali Vladimir
Špidla, ha dichiarato presentando l’iniziativa della Commissione europea: «L’immigrazione
ha sempre rappresentato al tempo stesso un arricchimento e un problema. Perché
l’Europa possa beneficiare veramente dell’immigrazione dobbiamo riuscire a gestirla
in maniera coerente, prevedibile ed efficace. L’immigrazione deve essere positiva
per l’economia europea, per i Paesi di origine e per i singoli immigrati. In
tale prospettiva, occorre che ci si impegni per integrare gli immigranti nel
mercato del lavoro e più in generale nella società, ma occorrono
anche norme chiare e flessibili per l’ingresso, il soggiorno e il reingresso».
Il Piano d’azione della Commissione riflette comunque l’attuale impossibilità
di armonizzazione di tutti i criteri che regolano l’ingresso e il soggiorno
per lavoro, dati i diversi sistemi e le diverse esigenze degli Stati membri
che continuano ad avere la sovranità in materia. Così, si limita
a garantire un insieme comune di diritti per i lavoratori stranieri ammessi
a soggiornare in uno Stato membro e a definire una disciplina armonizzata per
quanto concerne l’ingresso e il soggiorno di particolari categorie di lavoratori
stranieri (stagionali, altamente qualificati, in trasferimento all’interno di
multinazionali, tirocinanti retribuiti). Secondo alcuni osservatori, l’impossibilità
di giungere a un’armonizzazione dei criteri generali di ingresso e soggiorno
dimostra la debolezza di Commissione e Parlamento europei rispetto ai governi
degli Stati membri, soprattutto dei più grandi (G5), e la generale prevalenza
dell’approccio intergovernativo su quello comunitario.
GRAVI RITARDI SULLO STATUS GIURIDICO DEGLI IMMIGRATI
Il 23 gennaio scorso è scaduto il termine per l’attuazione della direttiva
europea del novembre 2003 relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi
soggiornanti di lungo periodo (2003/109/CE). Tale direttiva traduce sul piano
giuridico la richiesta formulata dal Consiglio europeo di Tampere di ravvicinare
lo status dei cittadini dei Paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri
e di riconoscere alle persone soggiornanti regolarmente da lungo periodo in
uno Stato membro una serie di diritti uniformi e quanto più simili a
quelli di cui beneficiano i cittadini dell’Ue. Per acquisire lo status di soggiornante
di lungo periodo, i cittadini dei Paesi terzi devono provare di aver risieduto
regolarmente e ininterrottamente in uno Stato membro per almeno 5 anni e di
disporre di un reddito sufficiente. Una volta riconosciuto lo status, i soggiornanti
di lungo periodo beneficiano di una tutela rafforzata contro l’espulsione, godono
della parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in una
vasta gamma di settori economici e sociali e hanno anche il diritto di soggiornare
in un altro Stato membro per lavoro, studio o per altri scopi alle condizioni
previste dalla direttiva. I dati disponibili indicano che almeno 10 milioni
di cittadini stranieri soggiornanti regolarmente nell’Ue potrebbero beneficiare
della direttiva, che però finora ha segnato un grave ritardo di attuazione
da parte degli Stati membri e solo 5 di essi hanno notificato alla Commissione
le misure specifiche adottate: Austria, Lituania, Polonia, Slovenia e Slovacchia.
asilo: una direttiva
molto discussa
Dopo un iter travagliato e molte discussioni, la controversa
direttiva europea sull’asilo è stata adottata dal Consiglio Giustizia
e Affari interni dell’Ue il 1° dicembre 2005. L’obiettivo della direttiva
è accelerare la procedura di esame delle domande di asilo e di armonizzare
le garanzie minime accordate ai rifugiati, nell’ambito della costituzione di
un regime comune di asilo in Europa programmata entro il 2010.
Il testo della direttiva era già stato approvato da Commissione e Consiglio
nei mesi scorsi, ma il Parlamento europeo aveva espresso parere contrario su
molti punti. In particolare, i deputati europei si erano detti contrari alla
creazione da parte del Consiglio di un elenco comune di Paesi cosiddetti “super
sicuri”, che autorizzerebbe gli Stati membri a rifiutare automaticamente le
domande d’asilo alle persone provenienti da tali Paesi, senza ricorrere dunque
all’esame della domanda. Pur accettando l’istituzione di un elenco unico europeo
“minimo”, gli eurodeputati avevano respinto la definizione di liste nazionali
integrative, auspicando garanzie supplementari per i richiedenti asilo. Inoltre,
secondo il Parlamento europeo, gli Stati membri non devono trattenere i richiedenti
asilo in centri d’accoglienza chiusi e devono sempre prendere in considerazione
misure alternative «non custodiali». Su questa materia, però,
il Parlamento ha un ruolo meramente consultivo e la Commissione ha ritenuto
urgente l’entrata in vigore della direttiva, «anche se imperfetta»,
per rimediare alle differenze di trattamento esistenti tra i vari Stati membri.
Così, nessuno degli emendamenti approvati dall’Europarlamento è
stato recepito.
Pur ammettendo che l’accordo sulle norme minime d’asilo è solo «un
primo passo», il commissario europeo Franco Frattini ha dichiarato che
«la nuova direttiva apporterà un contributo di grande rilievo alla
parità di condizioni in materia d’asilo in tutti e 25 gli Stati membri,
e ne stimolerà la fiducia reciproca nei rispettivi ordinamenti».
Stabilendo un sistema comune, ha detto Frattini, «noi assicuriamo la protezione
dei richiedenti asilo in qualsiasi luogo essi presenteranno la loro domanda
in Europa, ma assicuriamo pure che gli Stati membri siano in grado di trattare
con efficienza ed equità i casi di chi non ha diritto a ottenere protezione».
Il commissario europeo ha poi ricordato che l’adozione della direttiva comporta
anche la possibilità di concordare ogni ravvicinamento tra la legge e
la prassi in codecisione con il Parlamento europeo e secondo la regola della
maggioranza qualificata.
Di tutt’altro avviso l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur-Unhcr),
secondo cui la direttiva potrebbe causare un serio abbassamento degli standard
d’asilo all’interno dell’Ue e anche oltre i suoi confini. «Temiamo che
l’attuazione della direttiva, qualora non vengano introdotte ulteriori forme
di tutela, possa condurre a violazioni del diritto internazionale sui rifugiati
e rendere più difficile per i rifugiati vedere adeguatamente esaminate
le loro richieste di asilo presentate in Europa» ha dichiarato Pirkko
Kourula, responsabile dell’Ufficio europeo dell’Acnur, chiedendo agli Stati
membri di non ratificare le norme tendendo al livello minimo permesso dalla
direttiva. In particolare, l’Acnur è preoccupato dalle regole che consentono
di designare “Paesi terzi sicuri”, dove i richiedenti asilo possono essere rinviati
senza che la loro domanda sia stata esaminata in uno Stato dell’Ue, e dalla
mancanza di un divieto esplicito di espulsione mentre è in corso l’appello
del richiedente asilo. Secondo l’Acnur, poi, la direttiva consente anche altre
pratiche restrittive attualmente contenute solo nella legislazione di uno o
due Stati membri, ma che potrebbero essere inserite nella legislazione di tutti
e 25 i Paesi dell’Ue.
DELEGAZIONE EUROPARLAMENTARE IN LIBIA
Una delegazione di europarlamentari, in rappresentanza della sottocommissione
sui diritti umani del Parlamento europeo (Pe), ha reso noto l’8 dicembre 2005
l’esito di una visita compiuta in Libia per verificare la situazione dei migranti
lì espulsi da alcuni Paesi europei, dopo le visite già compiute
nei mesi scorsi a Lampedusa (vedi euronote n. 37/2005).
Le autorità libiche hanno confermato agli europarlamentari che centinaia
di migranti illegali dell’area subsahariana sono stati rimandati in Libia dalle
autorità italiane nel 2004 e nel 2005, e che il governo di Tripoli ha
provveduto a rimpatriarne la maggior parte nei rispettivi Paesi d’origine anche
con il contributo finanziario del governo italiano. Coloro per i quali non è
stato possibile verificare la nazionalità sono trattenuti nei Centri
di detenzione libici dove, secondo la delegazione del Pe, molte persone avrebbero
diritto alle procedure per la richiesta dell’asilo politico. La Libia, Paese
di circa 6 milioni di abitanti di cui 1,5 milioni sono immigrati, non ha mai
sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e il suo governo non riconosce
ufficialmente l’esistenza di rifugiati o richiedenti asilo sul suo territorio,
anche se la delegazione europea ha riscontrato maggiore disponibilità
rispetto a una precedente visita svolta nell’aprile 2005. Le autorità
libiche hanno poi confermato che il governo italiano ha finanziato la costruzione
di un Centro di detenzione a 20 chilometri da Tripoli e ha promesso il suo contributo
per altri due Centri. Inoltre, i rappresentanti del governo libico hanno dichiarato
di aver sottoscritto accordi di cooperazione per la lotta all’immigrazione illegale
con Italia, Francia, Spagna e Malta.
Nel gennaio scorso, la Commissione europea ha reso noto di essere pronta ad
aprire un negoziato con la Libia, che preveda il sostegno anche finanziario
dell’Ue per una serie di iniziative finalizzate a contrastare l’immigrazione
illegale, compreso il pattugliamento delle coste.
in stallo il processo di Barcellona
Un Vertice deludente, con troppi assenti e poche intese
specifiche e concrete. Questa l’opinione largamente diffusa in merito al Vertice
Euromediterraneo svoltosi a Barcellona nei giorni 27-28 novembre 2005 per valutare
e rilanciare il partneariato euromediterraneo. Dieci anni prima, un analogo
Vertice tenutosi nella città catalana aveva avviato il cosiddetto Processo
di Barcellona, che avrebbe dovuto sviluppare un forte partenariato tra i Paesi
europei e quelli della sponda meridionale del Mediterraneo, fino a giungere
entro il 2010 alla realizzazione di un’area di libero scambio. A dieci anni
di distanza, però, la situazione non è molto diversa da quella
iniziale: gli obiettivi fissati nel 1995 in materia di sicurezza e garanzia
dei diritti sono in larga parte falliti, mentre le riforme economiche avviate
in alcuni Paesi della sponda Sud non hanno veicolato analoghe riforme politiche
(vedi box).
Così, dal Vertice del decennale si attendevano impegni concreti per il
rilancio del partenariato, ma già l’elenco dei partecipanti lasciava
immaginare scarsi risultati: mentre tutti i rappresentanti dei 25 Stati membri
dell’Ue erano presenti, tra gli altri Paesi partner si registrava solo la partecipazione
di Turchia e Palestina, a dimostrazione di un malcontento generale e scarsa
fiducia in un Processo mai decollato. L’incontro è quindi stato caratterizzato
dalla difficoltà di raggiungere qualsiasi conclusione concreta sui temi
all’ordine del giorno e si è chiuso senza un’intesa di fondo, ma solo
con una vaga dichiarazione della presidenza britannica dell’Ue.
programma quinquennale
I partecipanti al Vertice hanno adottato un programma di lavoro quinquennale
e un codice di condotta per la lotta al terrorismo. Il programma per i prossimi
5 anni contempla obiettivi a medio termine in materia di partenariato politico
e di sicurezza, crescita e riforme economiche sostenibili, istruzione e scambi
socioculturali, immigrazione, integrazione sociale, giustizia e sicurezza. È
però piuttosto deludente, perché non recepisce le molte critiche
sollevate all’attuazione del Processo e parla genericamente di rilancio della
politica euromediterranea, senza definire intese specifiche e concrete. Nessuna
decisione concreta è stata adottata sulla questione mediorientale e il
conflitto israelo-palestinese, a conferma dell’irrilevanza della posizione dell’Ue
in una vicenda fondamentale nello scenario internazionale, che si trascina da
anni ai confini europei e sulla quale si continua a lasciare agli Usa ogni iniziativa.
In merito alle migrazioni, problema centrale per l’area mediterranea e che negli
ultimi anni ha assunto caratteri drammatici per le innumerevoli tragedie verificatesi,
sono stati riconfermati gli orientamenti in materia di migrazioni legali, lotta
contro l’immigrazione illegale e la tratta degli esseri umani. Questo è
forse il tema su cui il partenariato è più avanzato, anche se
eccessivamente concentrato sui controlli e il contenimento dei flussi a scapito
della salvaguardia di diritti umani e diritti fondamentali.
terrorismo e politica di vicinato
Il codice di condotta per la lotta al terrorismo, che secondo il Consiglio europeo
«rappresenta un progresso notevole nel quadro della cooperazione politica
e di sicurezza con i partner del Mediterraneo», in realtà è
stato molto discusso e, pur affermando che il terrorismo «non è
mai giustificato», non chiarisce il significato del termine rimandando
la questione all’Onu. Molti Paesi arabi, infatti, insistono per non estendere
il significato di terrorismo alla resistenza armata contro chi indebitamente
occupa il territorio nazionale.
Infine, alcune difficoltà di dialogo sono derivate anche dall’insistenza
dei Paesi della sponda sud del Mediterraneo a ottenere un legittimo chiarimento
sulla specificità e la priorità del Processo di Barcellona rispetto
alla politica di vicinato che l’Unione europea ha promosso e cerca di sviluppare
ai suoi confini orientali.
LE CRITICHE: SCARSA ATTENZIONE AI DIRITTI
Molti i giudizi negativi sui primi 10 anni del Processo di Barcellona. La rete
di istituti EuroMesCo, cui spetta la verifica dello stato di attuazione degli
obiettivi del Processo per favorire l’integrazione e lo sviluppo della regione,
ha presentato un Rapporto in occasione del Vertice di novembre in cui constata
«il fallimento degli obiettivi fissati nel 1995 per quanto concerne la
sicurezza e il rispetto dei diritti umani» nel Mediterraneo e avverte
che le riforme economiche nei Paesi del Sud «non sono servite a dare impulso
a quelle politiche». Il Rapporto propone di «dare priorità
alla promozione della democrazia nei Paesi del Sud, invece di privilegiare la
crescita economica, e di accettare l’Islam moderato, perché non ci saranno
processi democratici se esso continua a essere visto come una minaccia reale».
Il presidente del Parlamento europeo, Joseph Borrell, ha sottolineato come il
reddito pro capite europeo sia passato in 10 anni da 20.000 a 30.000 dollari
mentre quello dell’altro lato del Mediterraneo è rimasto fermo a 5000
e progressi non sono stati compiuti neppure sul versante dei diritti umani,
soprattutto per quanto riguarda il ruolo della donna. L’organizzazione Amnesty
International ha denunciato le violazioni dei diritti umani sulla riva sud del
Mediterraneo, ricordando però che l’Europa è altrettanto colpevole
«a causa del suo silenzio o della sua assenza». L’organizzazione
internazionale Attac, diverse Ong catalane e un gran numero di intellettuali
hanno invece denunciato il fallimento del progetto di creare una zona di pace
e stabilità nella regione dando impulso alla sua democratizzazione. L’Istituto
Europeo per il Mediterraneo di Barcellona ha reso nota un’inchiesta secondo
cui la maggioranza di 500 esperti internazionali ritiene che il Processo sia
poco visibile e i suoi obiettivi abbiano un basso livello di realizzazione.
Il Forum sindacale Euromed, riconoscendo la debolezza del partenariato rispetto
agli obiettivi stabiliti nel 1995, ritiene che il Processo vada rivitalizzato
e intensificato.
il Vertice di Hong Kong condanna i Paesi poveri
Il rinvio di ogni decisione importante sembra ormai essere
la tattica comune a molti vertici internazionali per evitarne il fallimento,
cosa puntualmente verificatasi anche a Hong Kong nei giorni 13-18 dicembre 2005
in occasione della sesta Conferenza ministeriale dell’Organizzazione mondiale
del commercio (Omc-Wto). La posta in gioco era piuttosto alta e le parti su
posizioni molto distanti. A Hong Kong, infatti, i 149 Stati membri dell’Organizzazione
dovevano evitare il fallimento definitivo del negoziato sul commercio avviato
a Doha (Qatar) nel 2001 e bloccatosi bruscamente a Cancun (Messico) nel 2003.
Per far ciò, però, era necessario trovare un accordo tra le grandi
potenze economiche (Usa e Ue su tutte) e il blocco costituitosi nel precedente
Vertice di Cancun, formato dai Paesi emergenti (Brasile, India e Cina) e da
quelli con economie meno o poco sviluppate (cioè la maggioranza). Sul
tavolo delle trattative, da un lato la richiesta di Usa e Ue per la liberalizzazione
del mercato dei servizi e dei prodotti industriali, dall’altro la fine degli
ingenti sussidi che i Paesi ricchi concedono ai propri agricoltori e che danneggiano
irrimediabilmente le economie povere ed emergenti. Dopo mesi di discussioni,
continuate a Hong Kong, e di fronte all’impossibilità di una soluzione
concreta, si è giunti a un compromesso che prevede un accordo di massima
per il medio periodo, mentre la definizione concreta delle modalità e
dei tempi è demandata ai negoziati che si svolgeranno nei prossimi mesi
nella sede di Ginevra dell’Omc, probabilmente caratterizzati da logiche bilaterali
e regionali. In sostanza, il Vertice ministeriale di Hong Kong ha deciso che
le sovvenzioni che i Paesi ricchi concedono all’esportazione dei loro prodotti
agricoli dovrebbero cessare nel 2013, mentre i Paesi meno sviluppati dovranno
intanto aprire i loro mercati alla liberalizzazione dei servizi e ai prodotti
industriali.
In sette anni però può succedere di tutto, ma non che le economie
più povere riescano a uscire dalla situazione drammatica in cui l’attuale
globalizzazione economica le ha relegate, con le sue regole a senso unico. Dunque,
se da Hong Kong non escono vincitori, i perdenti sono ben identificabili e sono
sempre gli stessi: i Paesi più poveri. Anche perché hanno perso
molto del sostegno ricevuto a Cancun dalle sempre più forti economie
emergenti: India e Brasile hanno ceduto alle offerte dei Paesi ricchi accettando
il rinvio al 2013, mentre la Cina è parsa più che altro preoccupata
a evitare il fallimento dell’importante Vertice che ospitava.
piccola vittoria dell’Ue
Durante il Vertice di Hong Kong la Francia ha chiesto al negoziatore europeo,
il commissario dell’Ue Peter Mandelson, di indicare come termine per la cancellazione
dei sussidi agricoli all’export non il 2010 (come proposto nella bozza di intesa
preparata dal direttore generale dell’Omc, Pascal Lamy) bensì il 2013,
data in cui scade anche il bilancio comunitario. Il termine del 2010, infatti,
avrebbe costretto gli Stati membri dell’Ue a rivedere da subito la politica
agricola comune (che assorbe il 40% circa del bilancio dell’Ue), come richiesto
peraltro dal governo britannico. Fissando invece la data al 2013, la complessa
e discussa questione non sarebbe stata affrontata dall’Ue nel quadro del bilancio
2007-2013, già piuttosto tormentato (vedi pag. 5), ma in quello successivo,
con una conseguente dilatazione dei tempi della sua realizzazione effettiva.
La richiesta europea ha irritato non poco il Brasile e i G20: «Passi
che il mio Paese abbia dovuto cambiare e a volte stravolgere le proprie leggi
per adattarsi alle richieste dell’Omc, ma che le sue politiche e quelle degli
altri Paesi del Sud del mondo debbano essere condizionate dalle scelte di bilancio
decise a Bruxelles è del tutto inaccettabile» ha dichiarato
il ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorin. Alla fine, però, l’Ue
ha ottenuto non solo il posticipo al 2013 per la fine dei sussidi agricoli,
ma anche quanto chiedeva in merito al calo delle tariffe industriali (dove i
tagli probabilmente saranno commisurati alla reale forza economica dei Paesi
produttori e non a una generica divisione tra Paesi ricchi o in via di sviluppo),
sulla tutela delle indicazioni geografiche e, soprattutto, sulla liberalizzazione
dei servizi, con la riproposizione degli approcci plurilaterali.
forti critiche da Ong e sindacati
Commentando l’accordo di Hong Kong, la Confederazione sindacale internazionale
Icftu e la rete di Ong Solidar hanno dichiarato che «rappresenta un altro
colpo all’occupazione e allo sviluppo sostenibile e ignora la necessità
e l’urgenza di migliorare i diritti e le condizioni di vita dei lavoratori».
L’accordo, inoltre, «non fa nulla per eliminare la paura della gente verso
la globalizzazione o l’immagine dell’Omc come un club dei ricchi e dei potenti.
Continuando a ignorare le voci della società civile, l’Omc sta mettendo
a rischio il sistema multilaterale del commercio».
Secondo l’organizzazione Tradewatch, il testo finale di Hong Kong rappresenta
«un vero e proprio insulto ai Paesi più poveri del pianeta, che
invece di portare a casa dei progressi sullo sviluppo dovranno far fronte a
sacrifici ancora più duri degli attuali». La delusione delle Ong
è profonda, soprattutto per come le economie emergenti del Sud del mondo,
a partire da Brasile e India, hanno abbandonato la causa dei Paesi poveri «per
sposare una fallimentare logica liberista, proprio quando un’autentica posizione
diversa avrebbe generato un cambiamento nella geopolitica mondiale» sostiene
l’organizzazione Mani Tese.
In ogni caso, sindacati e Ong dichiarano che continueranno a chiedere un sistema
multilaterale del commercio mondiale con una dimensione sociale e del lavoro,
che sia connesso e coerente con le altre istituzioni globali, come l’Onu e l’Oil.
aiuti umanitari a 10 Paesi africani
La Commissione europea ha deciso di stanziare 165,7 milioni di euro per il sostegno
di profughi, rifugiati e in generale delle popolazioni più vulnerabili
dell’Africa. I fondi, elargiti nel corso del 2006, riguardano i 10 Paesi africani
che secondo l’Ue e la comunità internazionale stanno affrontando le crisi
più gravi e sono così ripartiti: Sudan, 48 milioni; Repubblica
Democratica del Congo, 38 milioni; Burundi, 17 milioni; Liberia, 16,4 milioni;
Uganda, 15 milioni; Ciad, 13,5 milioni; Tanzania, 11,5 milioni; Costa d’Avorio,
5,2 milioni; Isole Comore, 600.000 euro; Madagascar, 500.000 euro.
Presentando l’iniziativa europea, il commissario europeo allo Sviluppo e agli
Aiuti umanitari, Louis Michel, ha ricordato che queste crisi umanitarie «non
attirano l’attenzione dei media occidentali, ma sono fonte di grandi sofferenze
per milioni di persone» che vanno sostenute dalla comunità internazionale.
Il Sudan, ad esempio, è il Paese africano maggiormente colpito dalla
povertà causata dal grave conflitto in corso e dalle catastrofi naturali.
Gli scontri nel Darfur hanno provocato una delle crisi umanitarie più
gravi del mondo e, se a questo si aggiunge il conflitto tra il nord e il sud
del Paese, si stimano circa 6 milioni di profughi interni e almeno 800.000 persone
che hanno cercato rifugio nei Paesi limitrofi, oltre 200.000 delle quali si
trovano in Ciad. Il Paese africano che accoglie il maggior numero di rifugiati
è invece la Tanzania: 350.000 persone, provenienti soprattutto dal Burundi
e dal Congo, la cui sopravvivenza dipende quasi interamente dall’aiuto umanitario.
L’Uganda, invece, continua a essere luogo di innumerevoli rapimenti di bambini
nel nord del Paese, nella regione di Acholiland, dove si stima che in 20 anni
i ribelli del Lord’s Resistance Army ne abbiano sottratti alle famiglie circa
25.000. In quella regione, 35.000 persone abbandonano ogni notte le loro abitazioni
per cercare maggior sicurezza nelle aree urbane e nei campi profughi. In Costa
d’Avorio, Paese diviso in due dalla guerra civile, la situazione umanitaria
resta molto fragile e si stimano circa mezzo milione di sfollati interni. L’obiettivo
degli aiuti è di migliorare l’accesso all’acqua e alle cure medico-sanitarie,
nonché dare protezione alle persone più vulnerabili come bambini
senza famiglie e donne. Nel Madagascar, oltre 150.000 persone che vivono nel
sud, nella regione del Vangaindrano, hanno perso quasi tutto a causa di inondazioni,
infestazioni di insetti e siccità, mentre in Liberia si cerca di trovare
sistemazione per i 191.000 profughi e gli 80.000 rifugiati provocati da 14 anni
di conflitto.
I finanziamenti dell’Ue giungeranno a queste popolazioni attraverso 180 organizzazioni
umanitarie, comprese le agenzie specializzate delle Nazioni Unite, la Croce
Rossa e organizzazioni non governative. La maggior parte dei contributi rientrano
nei piani globali di assistenza 2006 per garantire la sopravvivenza delle persone,
ma anche per creare servizi sanitari, rete idrica, ripari e abitazioni.
INFORMAZIONI:
http://www.europa.eu.int/comm/echo/index_en.htm
vantaggi dalla diversità sul lavoro
Oltre l’80% delle imprese europee che applicano politiche in favore della diversità
ne riconosce i vantaggi commerciali, soprattutto una più vasta scelta
al momento di assumere personale e la possibilità di trattenere i lavoratori
migliori, di stabilire relazioni umane più solide e di offrire un’immagine
migliore. Mentre però le imprese dell’Europa settentrionale e occidentale
hanno ampiamente sperimentato le politiche a favore della diversità,
quelle dell’Europa meridionale e dei nuovi Stati membri dell’Ue sottolineano
la necessità di maggiori informazioni sulle modalità per introdurre
queste politiche. È quanto emerge da un sondaggio svolto nel 2005 su
circa 800 imprese (in maggioranza medie e piccole) che hanno risposto a domande
sul loro atteggiamento e sulle loro politiche in materia di diversità,
generalmente percepita come «riconoscimento e apprezzamento della differenza»
sul posto di lavoro. Il sondaggio, finanziato dal Programma d’azione comunitario
per combattere le discriminazioni basate sull’origine etnica o la razza, la
disabilità, la religione o le convinzioni personali, l’età o l’orientamento
sessuale, sarà utilizzato dalla Commissione europea nel dibattito in
corso per la preparazione dell’Anno europeo delle pari opportunità, proclamato
per il 2007.
Lo studio «mostra che le imprese che attuano strategie a favore della
diversità e della parità sul luogo di lavoro, non lo fanno solo
per ragioni etiche e giuridiche ma anche per gli evidenti vantaggi commerciali»
ha commentato il commissario europeo per l’Occupazione, gli Affari sociali e
le Pari opportunità, Vladimir Špidla. Infatti, molte imprese che hanno
partecipato al sondaggio hanno sottolineato che ciò che le spinge ad
applicare strategie a favore della diversità non è la necessità
di rispettare gli obblighi di legge ma i risultati che si aspettano di ottenere.
Il vantaggio commerciale principale, evidenziato dal 42% delle imprese, è
la soluzione al problema della carenza di personale e l’assunzione e il mantenimento
sul posto di lavoro di personale altamente qualificato. Il secondo vantaggio
commerciale, secondo il 38% delle risposte, è il consolidamento della
reputazione e della posizione dell’impresa nella comunità locale. Oltre
il 26% delle imprese, poi, ha rilevato un miglioramento della propria capacità
di creazione e innovazione.
Una serie di buone pratiche evidenziate dallo studio riguardano, ad esempio,
la formazione del personale sulla lotta contro la discriminazione, la creazione
di rappresentanze dei lavoratori diversamente abili, omosessuali o appartenenti
a minoranze etniche, il lancio di campagne d’informazione sul valore dei lavoratori
più anziani, la definizione di obiettivi da raggiungere in termini di
diversità associandoli alla valutazione dei risultati. La maggior parte
degli esempi di buone pratiche proviene, in ordine decrescente, dalle imprese
del Regno Unito, della Spagna, della Germania, della Francia, dei Paesi Bassi
e del Belgio. Secondo le imprese, i principali ostacoli alla promozione della
diversità sono la mancata informazione e sensibilizzazione sulle pratiche
in materia di diversità, la difficoltà di valutare i risultati
e gli atteggiamenti discriminatori sul luogo di lavoro.
INFORMAZIONI:
http://europa.eu.int/comm/employment_social/index_it.html
l'Ue per le libertà d'espressione
e religiose
Esprimendo «profondo rispetto per la civiltà islamica e per il
contributo che essa ha offerto e che continua a offrire all’Europa», il
presidente della Commissione europea José Manuel Barroso è intervenuto
lo scorso 15 febbraio a Strasburgo sulla questione delle vignette raffiguranti
Maometto e pubblicate da alcuni quotidiani danesi e di altri Paesi europei.
Le vignette hanno offeso molti musulmani in tutto il mondo, ha ricordato Barroso
secondo cui «dobbiamo rispettare questa sensibilità e la sua
espressione mediante forme di protesta pacifica, protesta che è un diritto
fondamentale in ogni società aperta». Le preoccupazioni della
Commissione sono però per le reazioni violente di una minoranza, sconfessate
da molti musulmani, attuate anche nei confronti dei suoi uffici a Gaza e delle
missioni degli Stati membri. Barroso ha ricordato che la società europea
è basata sul rispetto per la vita e la libertà del singolo, sull’uguaglianza
dei diritti tra uomo e donna, sulla libertà di parola e su una chiara
distinzione tra politica e religione. «La libertà di parola
è parte integrante dei valori e delle tradizioni dell’Europa. Come tutte
le libertà, la sua salvaguardia dipende da un uso responsabile da parte
degli individui. I governi e le altre pubbliche autorità non impongono
né autorizzano le opinioni espresse dai singoli cittadini, e di converso
le opinioni espresse dai singoli impegnano soltanto coloro che le esprimono
e non impegnano un Paese, un popolo o una religione» ha dichiarato
il presidente della Commissione, ricordando che «così come rispetta
la libertà di parola, l’Europa deve rispettare la libertà di religione»,
che è un diritto fondamentale degli individui e delle collettività
e «comporta il rispetto di tutte le convinzioni religiose e di tutti
i modi in cui si estrinseca il loro esercizio». Secondo Barroso «è
tramite un dialogo energico ma pacifico, e sotto la protezione della libertà
di espressione, che è possibile approfondire la mutua comprensione e
costruire un rispetto reciproco», un dialogo che «deve
essere basato sulla tolleranza, non sul pregiudizio, sulle libertà di
espressione e di religione e sui valori ad esse collegati».
Ong e deputati Euromed richiamano
alle responsabilità
La libertà di espressione è uno degli elementi essenziali di una società democratica
basata sul rispetto dei diritti umani, tuttavia chi esercita tale libertà ha
doveri e responsabilità nei confronti dei diritti degli altri. Così si sono
espresse in un comunicato del 7 febbraio scorso le oltre 80 Ong di 30 Paesi
europei e arabi riunite nella Rete euromediterranea per i diritti umani Emhrn,
commentando la questione delle vignette su Maometto. La libertà di espressione
"deve essere applicata non solo alle informazioni e alle idee che sono accettate
con favore, ma anche a quelle che disturbano gli Stati o qualche gruppo della
popolazione" dichiarano le Ong, sottolineando che "chi fa uso di tale libertà
deve essere consapevole che le sue responsabilità non si limitano al contenuto,
ma anche al contesto geografico, sociale, culturale e politico" in cui si opera.
Così, condannando ogni azione violenta, la Rete Emhrn ricorda però che il fatto
che alcune vignette pubblicate identifichino l'Islam con il terrorismo "può
solo accrescere la xenofobia e il razzismo di cui i musulmani sono già vittime
in Europa". Forte condanna per "l'offesa portata al sentimento religioso della
comunità musulmana" e disapprovazione "per l'uso della violenza contro le rappresentanze
diplomatiche europee" sono state espresse anche dall'Assemblea parlamentare
euromediterranea (Apem), organismo che riunisce deputati arabi ed europei. L'Apem,
attualmente presieduta dal Parlamento europeo, fa appello a un "uso responsabile"
della libertà di stampa ed espressione, che deve "limitare qualsiasi insulto"
e condanna "ogni mancanza di rispetto per le religioni e allo stesso modo ogni
tentativo di incitare all'odio religioso, alla xenofobia o al razzismo".
Libro bianco sulla comunicazione
Il 1° febbraio scorso la Commissione europea ha adottato un Libro bianco
sulla politica europea di comunicazione, che segue la pubblicazione del piano
d’azione del luglio 2005 relativo alle azioni che l’esecutivo europeo dovrebbe
intraprendere per attuare una riforma delle sue attività di comunicazione.
«La comunicazione è anzitutto e soprattutto una questione di
democrazia. I cittadini hanno il diritto di sapere quello che fa l’Ue e hanno
il diritto di partecipare pienamente al progetto europeo» ha dichiarato
la vicepresidente della Commissione Margot Wallström presentando l’iniziativa.
Il Libro bianco intende mobilitare istituzioni, organismi della Commissione,
Stati membri, autorità regionali e locali, partiti politici e società
civile al fine di avvicinare i cittadini alle istituzioni e alle politiche europee
perché, come sottolinea Wallström, «l’Ue si è sviluppata
come progetto politico, ma non ha trovato un posto nei cuori e nelle menti dei
cittadini». I campi d’azione principali proposti dal Libro bianco
sono cinque: definizione di principi comuni per le autorità di comunicazione
su tematiche europee; coinvolgimento dei cittadini; collaborazione con i media
e ricorso alle nuove tecnologie; comprensione dell’opinione pubblica; cooperazione.
È previsto un periodo di consultazione di sei mesi, nel corso del quale
cittadini europei e operatori del settore potranno avanzare proposte e contributi
tramite il sito web appositamente creato. Alla fine di tale periodo, in base
alle indicazioni ricevute la Commissione elaborerà i piani d’azione specifici
per ciascun settore.
INFORMAZIONI:
http://europa.eu.int/comm/communication_white_paper
nessuna invasione dai nuovi Stati membri
A quasi due anni dall’allargamento dell’Ue del maggio 2004 non si è verificata
alcuna invasione di lavoratori dai 10 nuovi Stati membri, al contrario di quanto
temevano la maggior parte dei “vecchi” Paesi dell’Ue e parti consistenti delle
loro popolazioni. Il dato emerge dal Rapporto presentato l’8 febbraio scorso
dal commissario europeo all’Occupazione e Affari sociali Vladimir Spidla, che
ha analizzato la situazione di Irlanda, Regno Unito e Svezia, cioè gli
unici 3 Stati membri che avevano deciso di non avvalersi dell’opzione di limitazione
dei flussi di manodopera dai nuovi Stati membri. Il Rapporto ha registrato «effetti
positivi» sul mercato del lavoro di questi 3 Paesi, con un aumento della
crescita e dell’occupazione, dato che i lavoratori provenienti dai nuovi Paesi
dell’Ue hanno occupato mansioni lasciate scoperte. «La migrazione prima
e dopo l’allargamento è stata stabile» sia per chi ha deciso di
chiudere le frontiere sia per i 3 Stati che le hanno aperte, rileva la Commissione.
In particolare, il Regno Unito ha accolto 220.000 nuovi lavoratori, l’Irlanda
160.000 e la Svezia 8000, mentre le richieste sono state solo lievemente superiori
alle quote indicate in Germania e in Italia tali quote sono state soddisfatte
solo al 60%. Inoltre, aggiunge la Commissione, la forza lavoro proveniente dai
nuovi Stati membri e soprattutto dall’est europeo, che nel 70% dei casi si limita
a una permanenza stagionale, è fondamentale per compensare la mancanza
di manodopera in alcuni settori. Molti dei nuovi lavoratori registrati risiedevano
già nei 3 Paesi, per cui l’apertura dei mercati del lavoro dopo l’allargamento
ha permesso la fuoriuscita di questi lavoratori dall’economia sommersa. Va poi
considerato il fatto che l’economia e l’occupazione di molti dei nuovi Stati
membri crescono rapidamente, sottolinea il Rapporto, quindi «non ci si
deve attendere una pressione crescente». Nonostante ciò, solo Finlandia
e Spagna hanno finora deciso di aggregarsi a Irlanda, Regno Unito e Svezia per
l’apertura dei loro mercati ai lavoratori dei nuovi Stati dell’Ue, mentre tutti
gli altri si avvarranno probabilmente della possibilità di mantenere
il blocco per altri 3 anni, anche se, come ricorda la Commissione, la libera
circolazione dei lavoratori è uno dei valori consacrati nel Trattato
dell’Ue.
INFORMAZIONI: http://europa.eu.int/comm/employment_social/emplweb/news/news_en.cfm?id=119
accuse all'Ue sui diritti umani
L'Unione europea ha "chiuso gli occhi" su violazioni e abusi commessi da Paesi
terzi, minimizzando l'importanza dei diritti umani nelle relazioni con Paesi
partner nella lotta al terrorismo, come Russia, Cina e Arabia Saudita, mentre
alcuni Stati membri quali Francia e Germania esprimono ripensamenti rispetto
all'embargo sulla vendita delle armi alla Cina. Tali accuse sono contenute nel
Rapporto pubblicato il 18 gennaio scorso dall'organizzazione internazionale
per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw), che rimprovera l'Ue di non aver
utilizzato adeguatamente i numerosi accordi commerciali e di cooperazione in
atto con Paesi terzi condizionandoli maggiormente a progressi in materia di
diritti dell'uomo. "Non credo che qualcuno possa affermare che siamo stati morbidi
sui temi dei diritti umani" ha risposto la commissaria europea alle Relazioni
esterne Benita Ferrero-Waldner, sottolineando come l'Ue abbia mantenuto l'embargo
sulle armi alla Cina in vigore da 17 anni e abbia ripetutamente indicato alla
Russia la necessità del rispetto dei diritti umani, soprattutto in merito alla
situazione della Cecenia. "Il fatto che noi europei abbiamo relazioni commerciali
importanti con determinati Paesi non ci impedisce di sollevare, al tempo stesso,
la questione dei diritti umani" sostiene la Commissione europea. Intanto sulla
questione cecena si è pronunciato anche il Consiglio d'Europa che, lo scorso
25 gennaio, ha chiesto alle atutorità russe l'istituzione di una commissione
d'inchiesta sulle violazioni dei diritti umani nella regione e ha esortato il
Comitato dei ministri dell'organismo europeo ad "assumersi le proprie responsabilità
nei confronti di una delle più gravi situazioni dei diritti umani esistente
in uno Stato membro" qual è la Russia, pena il rischio di minare la credibilità
stessa del Consiglio d'Europa.
INFORMAZIONI : http://www.hrw.org;
http://www.coe.int
raccomandazioni del Pe all'Iran
Di fronte alla crescente tensione tra l’Iran e la comunità internazione
per la decisione del governo iraniano di riprendere il suo programma nucleare,
il Parlamento europeo ha adottato lo scorso 15 febbraio una risoluzione in cui
sostiene che la situazione debba essere risolta in forza al diritto internazionale
con l’implicazione dell’Onu. Condannando le dichiarazioni del presidente iraniano
Ahmedinejad contro Israele, l’Europarlamento esige dalle autorità di
Teheran la fine di ogni appoggio a gruppi terroristici. In accordo con la risoluzione
del Consiglio dei governatori dell’Aiea, che critica l’Iran per il non rispetto
delle raccomandazioni e sottolinea la mancanza di fiducia rispetto al fatto
che il programma nucleare iraniano sia destinato esclusivamente ad obiettivi
pacifici, i deputati europei considerano necessario che l’Iran: ripristini «una
piena e durevole» sospensione di tutte le attività di arricchimento
e rigenerazione; riconsideri la costruzione di un reattore di ricerca moderato
ad acqua pesante; ratifichi e riprenda l’applicazione integrale del Protocollo
addizionale; metta in atto le misure di trasparenza richieste dall’Aiea. Il
Pe sottolinea inoltre l’importanza della collaborazione con Usa, Russia, Cina
e Paesi non allineati per un accordo globale con l’Iran sulle sue strutture
nucleari e il loro uso, «che tenga conto delle preoccupazioni iraniane
sulla sicurezza». L’Iran è quindi invitato a «esaminare
seriamente» la proposta russa, condivisa dall’Ue, relativa al processo
di arricchimento dell’uranio «che offrirebbe al Paese la possibilità
di avanzare nel proprio programma nucleare in un quadro multilaterale».