Il 18 giugno scorso
la Conferenza intergovernativa (Cig) ha adottato il Trattato costituzionale per
l’Europa e, dunque, l’Unione europea si accinge ad avere una Costituzione.
Tra non poche critiche e perplessità espresse da più parti sui contenuti del
testo, si tratta comunque di un passo importante soprattutto perché condiviso
dalla maggior parte dei cittadini europei, secondo quanto indicano i sondaggi
effettuati.
Si apre ora un
percorso che prevede la firma del documento il prossimo 29 ottobre a Roma (dove
sono custoditi i Trattati europei) e quindi il processo di ratifica nei 25 Stati
membri dell’Ue, che potranno scegliere tra il voto parlamentare o il
referendum popolare. A favore del referendum si sono già espressi almeno 9
Stati, mentre nella maggior parte degli altri sono in corso dibattiti sulla
necessità o meno di sottoporre il Trattato costituzionale al parere dei
cittadini. Secondo alcuni lo strumento referendario metterebbe a rischio la
ratifica della Costituzione, dati i segnali giunti dalle recenti elezioni per il
rinnovo del Parlamento europeo (elevato astensionismo e aumento dei consensi per
le posizioni cosiddette “euroscettiche”) e le esperienze dei due referendum
danesi sull’euro. Probabilmente, invece, il processo di ratifica attraverso
referendum potrebbe costituire una buona occasione per coinvolgere i cittadini
in un ampio dibattito sul valore di un testo costituzionale, sui suoi contenuti,
sugli obiettivi interni ed esterni che l’Unione europea si pone, su diritti e
doveri di cittadinanza, uscendo così dai tecnicismi e tatticismi che hanno
caratterizzato la discussione in ambito di Cig. Anche perché, il testo
approvato il 18 giugno scorso costituisce solo un primo passo e in futuro potrà
(dovrà) essere emendato e migliorato. Ma ciò sarà possibile solo attraverso
un’ampia campagna di sensibilizzazione e coinvolgimento dei cittadini, in cui
tutta la cosiddetta società civile deve sentirsi fin d’ora impegnata per
riportare il dibattito politico sui contenuti.
E a proposito dei
contenuti del Trattato costituzionale (cui
dedichiamo l’inserto di questo numero) possono essere utili alcune
sintetiche considerazioni che tengono conto, in particolare, delle modifiche che
il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dei 25, dopo un anno di
negoziati, ha apportato al testo redatto dalla Convenzione in 18 mesi di lavoro.
obiettivi
generosi
Come è noto ormai,
il Preambolo è rimasto praticamente immutato, senza un riferimento alle radici
cristiane dell’Europa, anzi con l’eliminazione della citazione di Tucidide
sulla democrazia, ritenuta contraria al principio di uguaglianza fra gli Stati e
colpevole soltanto di ricordare che «La
nostra Costituzione…si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani
di pochi, ma dei più».
Meglio è andata al
capitolo sui valori comuni dell’Unione: non ne sono stati eliminati tra quelli
citati e due se ne sono aggiunti sui diritti delle minoranze e sulla parità
uomo-donna. Anche la lista degli obiettivi si allunga integrando, alla domanda
della Banca centrale e dei ministri finanziari, quella della stabilità dei
prezzi. Integrazione questa che non migliora certo l’equilibrio del testo in
favore della dimensione sociale dell’Unione.
Certo non va
dimenticato, nella parte più propriamente costituzionale del Trattato,
l’inserimento della Carta dei diritti fondamentali che raccoglie in un unico corpus
diritti civili, politici, sociali ed economici dando loro valore vincolante.
Nonostante i limiti di alcune sue parti - quella sociale in particolare -
l’adozione della Carta nel Trattato costituisce un progresso importante in una
stagione di diritti ignorati, calpestati o erosi. Resta da vedere quanto potrà
ridurne l’effettiva esigibilità la dichiarazione voluta dal Regno Unito
secondo cui «la Carta sarà interpretata
dalle giurisdizioni dell’Unione e degli Stati membri prendendo debitamente in
considerazione le spiegazioni date dal Presidium della Convenzione che ha
elaborato la Carta». Ancora un tortuoso giro di parole che, nella mente di
Blair, dovrebbe sterilizzare il più possibile la dimensione europea della
Carta: dirà il futuro se prevarrà l’universalità dei diritti o il freno
nazionale di un governo alla vigilia di un difficile referendum.
deboli le istituzioni sovranazionali
Ma è in materia
istituzionale che il dibattito e lo scontro è stato più intenso con il
risultato di non pochi passi indietro e pochi progressi rispetto al progetto
della Convenzione. Senza troppo entrare nei dettagli (per i quali rimandiamo all’inserto di questo numero), sempre
complicati e non proprio favorevoli a una migliore trasparenza e dimensione
democratica dell’Unione, soffermiamoci su alcuni elementi essenziali.
In materia di
procedure decisionali, il tema ultra-sensibile della maggioranza qualificata è
stato risolto fissando la soglia per l’adozione della decisione ad almeno il
55% degli Stati membri rappresentanti almeno il 65% della popolazione
dell’Unione. Questa soglia sale al 72% degli Stati membri se la proposta di
decisione non è presentata dalla Commissione. Per quanto possa parere
paradossale, si tratta di una radicale semplificazione del meccanismo precedente
che attribuiva a ciascun Paese uno specifico potenziale di voto, non facile da
definire con l’attuale (e futura) dimensione dell’Unione. Resta tuttavia un
dato di fondo: nei pure non numerosi casi di voto a maggioranza (resta infatti
l’unanimità per la politica estera e di difesa, la politica fiscale e
sociale) il meccanismo renderà comunque difficile la presa di decisione e
impedirà di progredire speditamente sulla strada dell’integrazione, in
particolare di quella economica, sociale e politica.
Quanto poi al ruolo
specifico di ciascuna istituzione dell’Unione viene confermato il
rafforzamento del potere del Consiglio (e quindi degli Stati membri) e, più
limitatamente, del Parlamento mentre si aggrava l’indebolimento della
Commissione (ne è anche una testimonianza la recente designazione del suo nuovo
presidente): complessivamente ancora una sostanziale vittoria di quella cultura
intergovernativa che fa perno sui poteri, più immaginari che reali, delle
nazioni piuttosto che scommettere sul futuro di un’Europa sopranazionale,
attore ormai indispensabile sulla scena internazionale in un mondo globalizzato.
Questa deriva inattuale è parzialmente temperata dalla creazione di un ministro
degli Esteri dell’Unione, figura istituzionale molto singolare se si tiene
conto che non esiste una vera competenza comunitaria in materia di politica
estera. Resta la speranza che, contrariamente alla dottrina darwiniana,
l’organo crei la funzione e che ancora una volta l’Unione riesca a
sorprendere per la sua capacità di innovare secondo canoni non proprio
tradizionali, come è avvenuto nel caso della moneta.
a rischio
la coesione economica e sociale
Nessun passo
avanti, anzi qualcuno indietro, è stato fatto in materia di governo
dell’economia dove non solo è stata confermata l’esclusione di competenza
dell’Unione sul fisco, ma non si è consentito alla Commissione di disporre di
strumenti più efficaci per il controllo sull’equilibrio dei conti pubblici:
dopo la sospensione, nei fatti, delle regole del Patto di stabilità nei
confronti di Francia e Germania con l’accordo dell’Italia (decisione ora
annullata dalla Corte di Giustizia europea) i governi hanno preferito premunirsi
in vista di eventuali future censure. Diversamente da quanto aveva previsto il
progetto proposto dalla Convenzione, la Commissione non avrà in materia un
diritto di proposta ma solo di raccomandazione: significa, in parole più
chiare, che non sarà necessaria l’unanimità dei governi per bloccare il
potere di controllo della Commissione e già si intravedono future alleanze in
favore di Paesi in odore di infrazione. E più in generale sarà utile
riflettere sulle modifiche introdotte nel testo adottato dove non si dice più
che «l’Unione coordina le politiche
economiche e sociali» ma che «gli
Stati membri coordinano le loro politiche economiche in seno all’Unione»:
può sembrare un dettaglio redazionale, ma può portare lontano o, meglio, molto
indietro sulla strada dell’integrazione economica e sociale. E quindi anche
politica.
Nessun progresso
significativo in materia sociale salvo i valori e gli obiettivi affermati nella
prima parte e forse il riferimento, nell’ambito del dialogo sociale, al ruolo
del Vertice sociale per la crescita e l’occupazione e l’inserimento di una
“clausola sociale” che impegna l’Unione a farsi carico delle «esigenze
legate alla promozione di un livello elevato di occupazione, alla garanzia di
una protezione sociale adeguata, alla lotta contro l’esclusione sociale e ad
un elevato livello di educazione, di formazione e di protezione della salute
umana». A fronte di queste dichiarazioni, la cui traduzione in politiche è
tutt’altro che automatica, si assiste a un regresso in materia di sicurezza
sociale dei lavoratori migranti: un “freno d’urgenza” consente a uno Stato
membro di opporsi a una decisione, nonostante in materia viga il voto a
maggioranza, e imporre quindi una sospensione della procedura fino a che il
conflitto venga arbitrato dal Consiglio europeo. Non sfuggirà a nessuno che si
tratta di una pericolosa breccia nel
già difficoltoso voto a maggioranza e che può preludere ad altre eccezioni,
come quella del cosiddetto “compromesso di Ioannina” grazie al quale è
rafforzato il potere di bloccare o almeno sospendere le decisioni dell’Unione
se si ritengono minacciati interessi nazionali e questo anche se non si dispone
di una regolare “minoranza di blocco”.
cooperazioni rafforzate
Si tratta tuttavia
di misure ambivalenti che se da una parte “frenano” il processo di
integrazione, dall’altra aprono la strada a “cooperazioni rafforzate” che
potrebbero consentire a un gruppo di Paesi di procedere sulla strada
dell’integrazione su politiche specifiche nell’attesa di essere raggiunti,
se lo vorranno, dagli altri Paesi dell’Unione. Il nuovo Trattato rende
maggiormente praticabile questa procedura finora piuttosto teorica, aprendo così
la strada a una difficile ma non traumatica Unione a più velocità.
A partire da queste
eventuali “cooperazioni rafforzate” ma più ancora dal difficile processo di
ratifica che attende questo Trattato costituzionale, si delineeranno e saranno
presto visibili gli scenari futuri dell’Unione e la traiettoria sempre
ostacolata ma mai arrestata dell’integrazione politica. Davanti a noi almeno
due anni di verifiche sulla volontà europea dei governi e dei popoli (che
potrebbero non coincidere) dell’Unione di creare un autentico spazio
sopranazionale al riparo dalla costruzione di un Super-Stato che dalla sua non
avrebbe né l’adesione delle sue diverse culture né la certezza dei suoi
confini. La Costituzione, nella sua modestia, apre la strada a nuove invenzioni
di convivenza per i popoli europei: come da cinquant’anni a questa parte, è
di nuovo ora di rilanciare questa storica impresa senza dimenticare, specie nei
momenti di disincanto, che l’Europa futura è prima di tutto una grande
pazienza.
Ces:
risultati parziali della presidenza irlandese
All’inizio
del semestre di presidenza irlandese dell’Ue, nel gennaio 2004, la
Confederazione europea dei sindacati (Ces) aveva incontrato il primo ministro
irlandese Bertie Ahern per presentargli le posizioni dei sindacati europei sulle
principali tematiche europee. Come già era stato fatto con la presidenza
italiana, che aveva guidato l’Ue nel secondo semestre 2003, la Ces aveva
sottoposto anche alla presidenza irlandese un piano costituito da 10 punti
riguardanti le richieste dei sindacati europei in materia di politiche sociali.
Questo perché, secondo la Ces, «la presidenza è un periodo che
consente di valutare i progressi della politica e della legislazione sociale
dell’Unione europea» e, pur
necessitando della cooperazione di Consiglio, Commissione e Parlamento, la
presidenza dell’Ue ha «un ruolo specifico
nelle modalità di dirigere le discussioni, stabilire priorità,
preparare i dossier, trattare argomenti specifici con una certa prospettiva».
Sulla base dei 10 test sociali i
sindacati europei avevano dato un giudizio negativo sul semestre a presidenza
italiana (vedi euronote n. 27/2004, pag. 7),
valutazione che non intendeva avere un carattere politico ma esclusivamente
“sociale”. Anche sulla presidenza irlandese, terminata il 30 giugno scorso,
la Ces non si esprime entusiasticamente: essa «aveva
una priorità principale, l’accordo sulla nuova Costituzione e non è riuscita
a realizzare la maggior parte dei propri obiettivi sociali e delle aspettative
dei sindacati europei».
La presidenza irlandese non è
tuttavia l’unica colpevole, secondo la Ces, perché in alcuni casi l’assenza
di progressi è da imputare alla Commissione europea (strutture per servizi
d’interesse generale, responsabilità sociale delle imprese ecc.), in altri ai
governi che hanno rimandato l’adozione di un accordo (es: lavoratori
temporanei) o hanno insistito per compromessi inadeguati per la dimensione
sociale dell’Ue. Un risultato è comunque stato riconosciuto dalla Ces: il
potere di negoziazione, la costante pressione e il grande sforzo politico della
presidenza irlandese hanno condotto all’accordo sulla nuova Costituzione
europea.
DIECI TEST SOCIALI PER LA PRESIDENZA
IRLANDESE |
VALUTAZIONE |
1. Convenzione/CIG: garantire un Trattato
costituzionale democratico, moderno e sociale per l’Europa. |
Complessivamente positiva, ma parziale sui problemi sociali |
2. Strategia di
Lisbona:
promuovere un’insieme di misure d’urgenza, conformi agli
obiettivi di Lisbona, per fare fronte ai problemi immediati dell’Europa
e perseguire l’impegno a favore del modello «Più quantità e qualità
dell’occupazione», fondato su politiche economiche, dell’occupazione
e della coesione sociale. |
Negativa |
3. Immigrazione: sviluppare una politica europea comune d’immigrazione
e d’asilo per realizzare l’integrazione e gestire i flussi migratori. |
Risultato parziale |
4. Revisione della
direttiva CAE:
recuperare il ritardo di 3 anni nella revisione legislativa. |
Positiva |
5. Salute e la sicurezza a lavoro:
rivedere la strategia comunitaria 2002-2006 |
Risultato parziale |
6. Controllo delle fusioni: integrare le considerazioni su occupazione e partecipazione. |
Negativa |
7. Lavoro temporaneo: adottare la
direttiva |
Negativa |
8. Tempo di lavoro: porre fine al prolungamento individuale e restringere
le altre deroghe. |
Negativa |
9. Servizi
d’interesse generale: avviare una procedura per una direttiva quadro o imporre
una moratoria legislativa sulla liberalizzazione. |
Negativa |
10. Responsabilità sociale delle
imprese (RSI): sviluppare
il dibattito sulla RSI nel quadro del modello sociale europeo e
riaffermare che la RSI non debba costituire un’alternativa al dialogo
sociale e alla negoziazione collettiva. |
Risultato parziale |
l’Unione
avvia la nuova legislatura
di Franco Chittolina
Mentre buona parte
dell’estate italiana è teatro della crisi che ha investito la Casa delle
libertà dopo le elezioni del 13 giugno, in Europa va prendendo forma la nuova
legislatura che porterà l’Unione alla fine del decennio, nel corso del quale
nuovi Stati ci raggiungeranno e il processo di integrazione imporrà anche
all’Italia scelte non facili.
Senza tuttavia
aspettare gli eventi futuri, già è interessante soffermarci su quelli in
corso. In questo ultimo mese almeno due importanti avvenimenti sono da
segnalare: l’intervento della Corte di Giustizia sulla sospensione, avvenuta
con la benedizione di Tremonti durante il semestre di presidenza italiana
dell’Ue, delle regole del Patto di stabilità e la formazione in corso degli
assetti del Parlamento europeo e della Commissione dopo l’esito della
consultazione elettorale europea. Si tratta di due dinamiche di natura
prevalentemente istituzionale, apparentemente lontane dalla nostra vita
quotidiana ma le cui ricadute politiche non tarderanno a manifestarsi
concretamente, in alcuni casi con effetti non trascurabili anche sui nostri
portafogli.
un patto
che impone rigore
Con l’intervento
del 13 luglio scorso, la Corte di Giustizia europea ha semplicemente ricordato a
tutti, istituzioni europee e governi nazionali, che le regole vanno rispettate.
Almeno fintanto che non sono modificate, come appare sempre più opportuno in
questo caso. Il Patto di stabilità e di crescita (sì, anche di crescita e
sarebbe ora di farsi carico anche di questo secondo aspetto delle regole
comuni!) è il risultato di una decisione unanime dei governi dell’Unione che
si sono liberamente imposti il rispetto di alcuni vincoli nel governo
dell’economia europea e in particolare la necessità di non superare nei conti
pubblici dello Stato un deficit massimo di 3% del Prodotto interno lordo (Pil)
nazionale. Nel caso che si prospettasse uno sforamento, la Commissione è
obbligata a suonare un campanello d’allarme e proporre al Consiglio dei
ministri di richiamare i Paesi a rischio di infrazione. Qualche mese fa la
situazione d’allarme venne segnalata per Francia e Germania: con molta
benevolenza e non poca leggerezza biasimata oggi dalla Corte di Giustizia, la
presidenza italiana dell’Ue evitò a questi due Paesi l’umiliazione del
richiamo, anche pensando a un ritorno di comprensione quando in quella
situazione si fosse un giorno trovata l’Italia. Ora è chiaro - e ancora
l’ha confermato qualche settimana fa il Fondo monetario internazionale - che
ormai il nostro Paese è sul baratro di quello sforamento: a politica economica
costante (e cioè già senza l’ulteriore costo della promessa riduzione
fiscale) e finiti i benefici effimeri delle “una tantum”, nel 2005 il
deficit supererà di almeno il 4% il Pil. Si annuncia così un autunno
difficile: a ottobre i ministri dell’Economia dell’Ue saranno costretti a
rimettere sotto esame l’Italia e questo proprio mente le Agenzie di rating
comunicheranno le loro valutazioni sull’affidabilità finanziaria del nostro
Paese. Quel giorno non ci sarà da stare allegri: la nostra permanenza nell’Ue
a tutti gli effetti avrà un costo molto alto che registreranno anche i nostri
portafogli.
nuovi Parlamento e Commissione
E mentre la Corte
di Giustizia continua implacabile a imporre a tutti il rispetto delle regole
presenti, altre due istituzioni - il Parlamento e la Commissione - si vanno
preparando ad affrontare la nuova legislatura che elaborerà le regole
dell’Unione del futuro.
Il Parlamento
europeo appena insediato si presenta con una configurazione politica
parzialmente nuova e alleanze, sia pure “tecniche”, relativamente vecchie.
Un nuovo consistente Gruppo (88 seggi) si è formato alla confluenza di
liberaldemocratici e centristi (vi siedono tra gli altri gli eletti italiani
della Margherita e ne è presidente onorario Prodi), si è rafforzato il Gruppo
degli anti-Unione, si sono più fortemente strutturati il Partito dei Verdi (42
seggi) e della Sinistra europea (41 seggi) mentre hanno confermato le loro
posizioni i due partiti maggiori: i Popolari con 276 seggi e i Socialisti con
200 seggi. Sarà anche per quest’ultimo dato che continua nel tempo una
pratica consolidata che vede spartita tra questi due partiti la presidenza del
Parlamento: i primi due anni e mezzo al socialista spagnolo Borrell e la seconda
parte del mandato a Poettering, tedesco del Partito Popolare. L’elemento di
novità che avrebbe potuto rappresentare la candidatura del polacco Geremek è
stata rimandata a tempi migliori. Magari quando questo Parlamento sarà meno
ingessato e avrà fatto dal vivo l’esperienza delle nuove dinamiche che gli
imporranno gli altri partiti, esclusi dal condominio popolar-socialista.
Intanto è
faticosamente in corso la formazione della nuova Commissione: la designazione
del portoghese Barroso alla successione di Prodi ha suscitato non poche riserve
in seno al Parlamento cui spetta la ratifica della designazione proposta dal
Consiglio europeo. Il suo profilo conservatore, il suo passato di alleato di
Bush e Blair nella guerra in Iraq, premier
alla testa di un governo sicuramente non euro-entusiasta, spesso vicino alle
posizioni inglesi fanno di Barroso una figura che sarà difficilmente in grado
di rafforzare il ruolo della Commissione (già in forte parabola discendente con
Prodi) e di sostenere con vigore il processo di integrazione europea. E questo
proprio mentre la nuova legislatura si avvia verso due anni difficili per la
ratifica della Costituzione, il coinvolgimento dei nuovi Paesi membri nella vita
quotidiana dell’Unione, la decisione sul futuro ingresso della Turchia e
l’adozione problematica delle nuove prospettive finanziarie dell’Ue. Per
Barroso molto dipenderà anche dalla squadra che riuscirà a formare attorno a sé,
senza troppo subire le imposizioni dei 25 governi le cui proposte risentono
spesso più di calcoli di politica interna che di visione europea. Nel caso
dell’Italia, Barroso si è augurato la riconferma di Monti, cui si è
impegnato ad affidare un portafoglio importante come quello della concorrenza.
Coglierà il governo italiano questa immeritata opportunità o prevarranno
regolamenti di conto interni? Difficile dirlo oggi: se ne riparlerà alla
prossima puntata.
PATTO
DI STABILITÀ: LA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA Il 13 luglio 2004 la Corte di giustizia europea ha espresso la sentenza relativa al ricorso presentato dalla Commissione il 27 gennaio 2004 contro la decisione del Consiglio Ecofin (25 novembre 2003) di sospendere le procedure per disavanzi eccessivi nei confronti di Francia e Germania. La Corte ha considerato «ricevibile» il ricorso per la parte in cui è diretto contro le conclusioni dell’Ecofin, perché «il Consiglio non può discostarsi dalle norme stabilite dal Trattato né da quelle che esso stesso si è imposto nel regolamento n. 1467/97». Rispetto alla sospensione della procedura per disavanzo eccessivo, la Corte ha ritenuto che il Consiglio «non si è limitato a constatare una sospensione di fatto della procedura per disavanzo eccessivo derivante dall’impossibilità di adottare una decisione raccomandata dalla Commissione»; le conclusioni dell’Ecofin invece, secondo la Corte, «in quanto subordinano la sospensione al rispetto da parte degli Stati membri interessati dei propri impegni, limitano il potere del Consiglio di procedere a un’intimazione sulla base della precedente raccomandazione della Commissione, fintantoché si ritenga che gli impegni sono rispettati». Di conseguenza, dichiara la Corte, la valutazione del Consiglio ai fini di una decisione d’intimazione «non sarà più fondata sul contenuto delle raccomandazioni per la correzione del disavanzo (…), ma sugli impegni unilaterali assunti» dagli Stati interessati. Per quanto concerne poi la modifica delle raccomandazioni adottate dal Consiglio per la correzione del disavanzo eccessivo, la Corte rileva che «laddove il Consiglio abbia adottato dette raccomandazioni, non può modificarle senza un nuovo impulso da parte della Commissione, la quale dispone di un diritto d’iniziativa nell’ambito della procedura per i disavanzi eccessivi». Con queste motivazioni, dunque, la Corte di giustizia europea ha annullato le conclusioni del Consiglio del 25 novembre 2003 riportando la situazione alla raccomandazione che chiedeva a Francia e Germania di far rientrare il loro disavanzo sotto la soglia del 3% del Pil entro il 2005. Dopo il pronunciamento della Corte, i due Paesi hanno promesso di mantenere gli impegni assunti, ma nel 2004 rischiano di sforare la soglia del 3% per il terzo anno consecutivo. |
un
Libro verde sull’antidiscriminazione
Nel corso degli ultimi cinque anni sono stati compiuti enormi progressi a
livello dell’Ue per sviluppare un quadro politico e giuridico contro la
discriminazione e promuovere la parità di trattamento. È tuttavia importante
riconoscere che ancora molto rimane da fare per garantire un’attuazione
completa ed efficace nell’Ue allargata. Inoltre, è importante ricordare che
la legislazione rappresenta solo uno strumento nella lotta contro la
discriminazione. Per cambiare gli atteggiamenti e i comportamenti è necessario
uno sforzo continuo che sostenga la legislazione con misure concrete». Con questa constatazione la Commissione europea conclude il Libro verde
“Uguaglianza e non discriminazione nell’Unione europea allargata”
pubblicato lo scorso 28 maggio, che mette in evidenza i diversi settori in cui
sono necessari ulteriori sforzi per contrastare le varie forme di
discriminazione nell’Unione, proponendo alcune azioni e chiedendo il
contributo di tutti coloro che fossero interessati allo sviluppo della futura
politica europea sulla non discriminazione e sulla parità di trattamento
(consultare il sito web http://europa.eu.int/yourvoice/consultations/index_it.htm).
importanza delle politiche
Secondo la
Commissione, nonostante la legislazione europea abbia incrementato
significativamente negli ultimi anni il livello di protezione dalla
discriminazione, questa continua a essere nelle sue varie forme una realtà
quotidiana per milioni di persone che vivono e lavorano nell’Ue, anche perché,
dopo l’adozione degli attuali strumenti per combattere la discriminazione a
livello europeo, sono sorte nuove problematiche. Su tutte l’allargamento
dell’Ue e, in particolare, la necessità di intensificare gli sforzi per
affrontare la situazione dei rom e di altre minoranze etniche.
«La
politica contro la discriminazione - sostiene la Commissione - rappresenta
un aspetto importante dell’impostazione adottata dall’Ue in tema
d’immigrazione, inclusione, integrazione e occupazione. Chiarendo i diritti e
i doveri ed evidenziando i vantaggi che apporta la diversità in una società
multiculturale, tale politica può aiutare a indirizzare un processo di
cambiamento basato sul rispetto reciproco tra minoranze etniche, migranti e
società ospitanti».
Per questo, il
Libro verde sottolinea come la politica contro la discriminazione debba
continuare a formare parte integrante della risposta data dall’Ue a diverse
questioni di interesse pubblico, come il sostegno alla lotta contro ogni forma
di razzismo e di xenofobia, incluse le recenti manifestazioni di antisemitismo e
di islamofobia.
Un recente
sondaggio d’opinione di Eurobarometro sulla “Discriminazione in Europa” ha
evidenziato come la grande maggioranza dei cittadini europei continui a opporsi
ad ogni forma di discriminazione, confermando quindi l’importanza
dell’impegno dell’Ue a favore della non discriminazione.
le due direttive
L’adozione
dell’articolo 13 nei Trattati di Amsterdam e Nizza (vedi
box) ha rispecchiato la crescente consapevolezza della necessità di mettere
a punto un «approccio coerente e
integrato» nella lotta alla
discriminazione, attraverso l’impegno e lo scambio di esperienze e buone
prassi tra i diversi ambiti. Oltre a fornire una base più efficace per
affrontare situazioni di discriminazione multipla, l’articolo 13 consente di
adottare impostazioni giuridiche e politiche comuni in relazione ai diversi
aspetti, comprese definizioni comuni del concetto di discriminazione. Pur
riconoscendo le necessità specifiche dei vari gruppi, l’approccio integrato
si fonda sulla premessa che la parità di trattamento e il rispetto della
diversità interessano la società intera.
Sulla base di tale
articolo, la Commissione europea presentò un pacchetto di proposte alla fine
del 1999, che portò nel 2000 all’adozione da parte del Consiglio di due
direttive innovatrici intese a garantire un’efficace tutela giuridica contro
la discriminazione.
La prima direttiva,
concernente l’uguaglianza razziale, vieta la discriminazione diretta e
indiretta, così come le molestie e gli ordini volti a discriminare le persone a
causa della razza o dell’origine etnica. Copre i settori dell’occupazione,
della formazione, dell’istruzione, della sicurezza sociale, dell’assistenza
sanitaria, dell’alloggio e l’accesso a beni e servizi. La seconda direttiva,
riguardante la parità in ambito lavorativo, è incentrata sulla discriminazione
in materia di occupazione, condizioni di lavoro e formazione professionale.
Affronta la discriminazione diretta e indiretta, così come le molestie e gli
ordini volti a discriminare le persone a causa della religione o delle
convinzioni personali, degli handicap, dell’età e delle tendenze sessuali.
Contiene disposizioni importanti circa le soluzioni appropriate da prevedere per
i disabili, in modo da promuoverne l’accesso all’occupazione e alla
formazione.
Queste due
direttive hanno innalzato significativamente il livello di tutela contro la
discriminazione in Europa, portando così l’Ue ad avere uno dei quadri
giuridici tra i più progrediti al mondo. Tali direttive hanno richiesto
notevoli modifiche al diritto nazionale di tutti gli Stati membri, anche di
quelli che già possedevano una legislazione completa contro la discriminazione,
mentre alcuni Stati, durante il processo di recepimento, hanno addirittura
superato gli standard minimi previsti dalla legislazione comunitaria: ad
esempio, hanno vietato la discriminazione al di fuori della sfera lavorativa per
motivi legati alla religione o alle convinzioni personali, agli handicap,
all’età o all’orientamento sessuale. Molti Stati membri, inoltre, hanno
istituito un unico quadro giuridico che, oltre alle cause contemplate dalle due
direttive, investe anche la discriminazione sessuale.
allargamento
dell’Ue
Secondo il Libro
verde, i nuovi Stati membri hanno incontrato in genere gli stessi problemi dei
“vecchi” nel recepire la legislazione comunitaria in materia di lotta alla
discriminazione. L’introduzione per la prima volta di una tutela giuridica
contro la discriminazione per determinate cause (handicap, tendenze sessuali e
età) ha posto serie difficoltà ad alcuni nuovi Stati membri.
L’approccio agli
handicap fondato sui diritti, che informa la politica comunitaria in materia di
lotta alla discriminazione, è ancora un concetto relativamente nuovo per le
autorità pubbliche e le organizzazioni non governative di molti dei nuovi Stati
membri. Il recepimento delle disposizioni antidiscriminatorie in fatto di
tendenze sessuali si è rivelato controverso in molti di questi Paesi. La
discriminazione per ragioni d’età è un fenomeno attualmente poco riscontrato
in molti dei Paesi in questione, ma apparentemente le misure per far fronte alla
discriminazione nell’accesso all’occupazione e alla formazione richieste
dalla legislazione comunitaria potrebbero rientrare in un più ampio approccio
politico volto ad innalzare i tassi di partecipazione al lavoro dei lavoratori
anziani: nei nuovi Stati membri i tassi di occupazione dei lavoratori anziani
sono generalmente molto bassi (la media dei dieci nuovi Stati membri è solo del
30,5%) e i lavoratori anziani che hanno subito le conseguenze della
ristrutturazione economica incontrano spesso difficoltà ad accedere alla
formazione e a nuove opportunità di lavoro.
La Commissione
sottolinea come, in assenza di un emendamento all’articolo 13 del Trattato CE,
l’adozione di una legislazione comunitaria in questo settore continua a
richiedere l’accordo unanime degli Stati membri in seno al Consiglio. Ciò sarà
chiaramente più difficile da ottenere in un’Ue con 25 o più Stati membri: «Un
ulteriore intervento legislativo in questo settore richiederà una volontà
politica forte e condivisa da tutti gli Stati membri, senza che ciò precluda
l’intervento a livello nazionale, per garantire che l’attuale quadro
giuridico sia pienamente attuato e applicato nell’Ue allargata».
attuazione del quadro giuridico
Il Libro verde
considera come sfida quella di garantire la piena ed effettiva attuazione del
quadro giuridico predisposto negli ultimi anni: «Occorrerà senz’altro colmare il divario tra le disposizioni
giuridiche approvate dall’Ue nel 2000, verificare lo stato d’attuazione in
alcuni Stati membri e far fronte al persistere di pratiche discriminatorie. Vi
sono, infatti, prove che la discriminazione razziale in particolare sia
aumentata negli ultimi anni».
La Commissione
europea, che dovrà rendere conto dello stato di attuazione delle direttive al
Consiglio e al Parlamento nel 2005 e 2006, constata «con grande inquietudine» i ritardi nel recepimento delle direttive
in numerosi Stati membri. In alcuni Paesi, si sta ancora dibattendo il progetto
di legislazione o addirittura non è stato ancora presentato ufficialmente. In
altri casi, la legislazione non copre ancora l’intero territorio dello Stato
membro o tutti i livelli di potere pertinenti. Dove la legislazione è stata
adottata, poi, spesso non recepisce completamente tutte le disposizioni delle
direttive. Tutti gli Stati membri così come quelli candidati, sottolinea il
Libro verde, hanno dovuto affrontare le stesse difficoltà a tale riguardo: è
stato necessario introdurre nuove definizioni di discriminazione diretta e
indiretta e di molestia; hanno dovuto considerare nuovi concetti giuridici,
quali la condivisione dell’onere di prova nei casi di discriminazione; sono
dovuti intervenire per proibire la discriminazione in settori diversi
dall’occupazione, quali l’istruzione, la sicurezza sociale, l’assistenza
sanitaria, l’alloggio e l’accesso a beni e servizi. Molto resta ancora da
compiere per garantire la piena ed effettiva attuazione delle direttive
sull’uguaglianza razziale e sulla parità in ambito lavorativo: «Ciò
richiederà ulteriori interventi da parte delle autorità pubbliche per
completare il processo di recepimento nel diritto nazionale, oltre a rinnovati
sforzi per quanto riguarda l’opera di sensibilizzazione, la formazione e la
cooperazione con la società civile». Tutto ciò senza dimenticare che «la
legislazione non rappresenta l’unico strumento disponibile a livello europeo,
nazionale o regionale per combattere la discriminazione. Nella pratica, la lotta
alla discriminazione richiede il pieno utilizzo di un’ampia gamma di strumenti
politici e finanziari, senza contare l’apporto essenziale per il coronamento
di questi sforzi costituito dall’intervento collettivo delle varie parti
interessate».
un primo bilancio
Il Libro verde
contiene poi una prima valutazione dei risultati ottenuti con l’attuazione del
programma d’azione nel corso degli ultimi tre anni.
L’approccio
integrato alle cinque cause di discriminazione contenute nel programma si è
rivelato un’utile base per gli scambi di esperienze e di buone pratiche,
sostiene la Commissione, anche se alcune organizzazioni abituate a lavorare con
particolari gruppi di destinatari hanno giudicato difficile il passaggio a
questo tipo di approccio.
Una percentuale
notevole delle risorse umane e finanziarie disponibili è stata destinata a
progetti transnazionali, che riuniscono una serie di gruppi e di organizzazioni,
anche se l’impatto reale di alcuni di questi progetti non convince del tutto
la Commissione.
Un numero
significativo di finanziamenti di base è stato inoltre fornito al Forum europeo
della disabilità (Edf), alla Rete europea contro il razzismo (Enar), alla
Piattaforma europea per le persone anziane (Age) e a Ilga-Europe (Associazione
gay e lesbica internazionale) nonché a una serie di reti minori che operano nel
campo della disabilità. Questi finanziamenti mirano a consentire a queste
organizzazioni di lottare contro la discriminazione, di promuovere
l’uguaglianza e di coinvolgere i rispettivi membri in una serie di attività.
Il valore aggiunto del finanziamento europeo a queste reti sarà giudicato nel
quadro della valutazione esterna del programma.
Il programma ha
infine sostenuto attività di sensibilizzazione condotte a livello Ue e
nazionale: «Sebbene questi sforzi abbiano
iniziato a produrre risultati - si legge nel Libro verde - la
necessità di promuovere cambiamenti nei comportamenti e nelle opinioni è
chiaramente un processo a lungo termine. Le prossime attività di
sensibilizzazione potrebbero concentrarsi in maniera più specifica su
particolari gruppi destinatari e messaggi chiave. Esse dovranno inoltre prendere
in considerazione l’enorme varietà dei contesti nazionali dell’Ue allargata».
INFORMAZIONI :
http://www.stop-discrimination.info
L’ARTICOLO
13 Trattato
che istituisce la Comunità europea (modificato dai Trattati di Amsterdam
e di Nizza): «1. Fatte salve le altre disposizioni del presente Trattato e nell’ambito
delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio,
deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa
consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti
opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o
l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap,
l’età o le tendenze sessuali. 2. In deroga al paragrafo 1, il Consiglio delibera secondo la procedura di
cui all’articolo 251 quando adotta misure di incentivazione comunitarie,
ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e
regolamentari degli Stati membri, destinate ad appoggiare le azioni degli
Stati membri volte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui
al paragrafo 1». |
CARTA
DEI DIRITTI FONDAMENTALI L’impegno dell’Ue verso il principio di non discriminazione è stato
ribadito dalla proclamazione, nel dicembre 2000, della Carta dei diritti
fondamentali. L’articolo 20 sancisce il principio generale di
uguaglianza davanti alla legge e l’articolo 21 verte sul principio di
non discriminazione. Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, articolo 21: «1. E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in
particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine
etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o
le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra
natura, l’appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio, la
nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. 2. Nell’ambito d’applicazione del Trattato che istituisce la Comunità
europea e del Trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi
discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni
particolari contenute nei trattati stessi». L’articolo 21 della Carta riprende le sei cause contemplate
dall’articolo 13 del Trattato CE, oltre ad altre sette (origine sociale,
caratteristiche genetiche, lingua, opinione politica o di qualsiasi altra
natura, appartenenza a una minoranza nazionale, patrimonio e nascita). Inoltre, il diritto alla non discriminazione è riconosciuto a livello
internazionale dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dal
Patto delle Nazioni unite sui diritti civili e politici, dalla Convenzione
delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, dalla
Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione
razziale e dalla convenzione dell’Oil n. 111. |
ANTIDISCRIMINAZIONE
PER SINDACATI E DATORI DI LAVORO A
livello europeo le parti sociali hanno approvato una dichiarazione durante
l’Anno europeo delle persone con handicap (2003). La Confederazione
europea dei sindacati (Ces) ha sviluppato un progetto sulla non
discriminazione, con il sostegno del programma d’azione comunitario per
combattere le discriminazioni, concernente la discriminazione fondata
sulla razza e la religione sul luogo di lavoro. Il progetto ha inteso
esaminare la misura in cui tale questione è trattata dagli accordi
collettivi nonché di fornire una panoramica del numero di persone
appartenenti a minoranze religiose o razziali che partecipano al processo
decisionale dei sindacati. Per quanto concerne invece i datori di lavoro, la legislazione europea
contro la discriminazione coinvolge sia quelli del settore pubblico che
del privato, riguardando imprese piccole e grandi, così come i lavoratori
autonomi. Oltre al rispetto dei requisiti di legge, i datori di lavoro
europei favorevoli al progresso stanno iniziando a riconoscere i vantaggi
della diversità. Questo va di pari passo con la più ampia agenda europea
per la promozione della responsabilità sociale delle imprese. Sono state
effettuate delle ricerche per conto della Commissione sui costi e sui
benefici della diversità per i datori di lavoro e la Commissione ha anche
cercato di riconoscere gli sforzi compiuti da alcuni datori di lavoro in
questo campo nel quadro di un sistema di incentivi per le imprese. Nel
novembre 2003 la Commissione europea ha pubblicato uno studio indipendente
riguardante i “costi e i benefici delle politiche della diversità nelle
imprese”. Lo studio, basato su un’indagine condotta con la
partecipazione di oltre 200 piccole e grandi imprese, ha individuato una
serie di vantaggi importanti connessi alla diversità nella forza lavoro,
che comprendono la reputazione dell’azienda, il capitale umano e
l’eliminazione dei costi relativi alla discriminazione e alle molestie
sul luogo di lavoro. Le sfide emerse nella relazione comprendono la
mancanza di consapevolezza, la resistenza ai cambiamenti organizzativi e
le difficoltà connesse alla raccolta dei dati. |
primo
Rapporto europeo su migrazioni e integrazione
Mentre si avvicina il varo di una
politica europea comune su immigrazione e asilo, la Commissione ha reso nota lo
scorso 16 luglio una comunicazione contenente il “Primo Rapporto annuale su
migrazione e integrazione”, che cerca di fornire un quadro d’insieme su
caratteristiche e tendenze del fenomeno migratorio e sulle risposte che ad esso
danno gli Stati membri dell’Ue. Si tratta del primo documento di questo tipo
che la Commissione realizza, su invito del Consiglio, con l’obiettivo di
portare un contributo pratico e utile all’elaborazione di una politica comune.
Il Rapporto conferma l’importanza
dell’immigrazione per lo sviluppo economico e sociale dell’Ue, ricordando a
governi e istituzioni europee il dovere di prepararsi a nuovi flussi migratori,
necessari date le tendenze demografiche della popolazione europea. A questo
proposito, sottolinea la Commissione, vanno elaborate politiche di ammissione
per gli immigrati economici, i quali devono potersi muovere nell’Ue in modo più
coerente e trasparente di quanto avviene oggi per poter rispondere alle esigenze
del mercato del lavoro europeo. «Le
politiche di ammissione e di integrazione sono inseparabili - si legge nel
Rapporto - e rafforzano tutte le altre».
Gli Stati membri devono munirsi di strumenti per utilizzare a pieno le
potenzialità e le professionalità dei lavoratori immigrati e,
contemporaneamente, migliorare le politiche per un’effettiva integrazione dei
“vecchi” e dei nuovi arrivati in tutti i settori della vita sociale. Le
istanze dell’immigrazione devono essere presenti in tutte le più rilevanti
politiche dell’Ue, sottolinea la Commissione che constata come ciò non
avvenga ancora in misura adeguata e necessiti un rafforzamento. Così, si
raccomanda un miglioramento del meccanismo della raccolta dei dati, al fine di
favorire le comparazioni tra Stati membri, lo scambio di esperienze e buone
pratiche nonché un incremento del dialogo con le organizzazioni e con le varie
comunità di immigrati, condizione necessaria per una migliore coesione sociale.
Il Rapporto intende dunque dare elementi
ulteriori per la definizione di principi-base comuni in materia di diritti e
doveri dei cittadini immigrati al fine di giungere presto alla realizzazione di
una politica comune.
quadro migratorio
Nel corso dell’ultimo decennio si sono
registrati significativi cambiamenti nelle tendenze migratorie della maggior
parte degli Stati membri dell’Ue: molti si sono trasformati da Paesi di
emigrazione a Paesi di immigrazione e hanno dovuto affrontare consistenti flussi
migratori. Il saldo migratorio è relativamente basso ma progressivamente
positivo anche nella maggior parte dei nuovi Stati membri: nel 2002 solo
Lettonia, Lituania e Polonia hanno registrato un tasso netto migratorio
negativo. In Paesi come Germania, Grecia, Italia, Slovenia e Slovacchia,
caratterizzati da un decremento demografico, l’immigrazione ha rappresentato
un contributo importante per la crescita della popolazione. Nel 2002 il tasso
migratorio netto annuale era del 2,8 per 1000 abitanti nell’Ue a 25, un tasso
che nell’ultimo decennio è stato generalmente positivo nei 15 “vecchi”
Stati membri e spesso negativo nei 10 “nuovi”. Il numero totale di cittadini
di Paesi terzi che vivevano nell’Ue a 15 nel 2001 era stimato in 14,3 milioni,
equivalente a una percentuale del 3,8% sulla popolazione dell’Ue, mentre non
sono ancora disponibili dati certi sul totale di immigrati nell’Ue a 25 che
dovrebbero comunque superare di gran lunga i 15 milioni. Tra questi, circa 9
milioni provengono da Paesi terzi mentre gli altri sono cittadini provenienti da
un altro Stato dell’Ue a 25. A parte il Lussemburgo, dove gli immigrati
stranieri costituiscono oltre un quarto della popolazione totale, Belgio,
Germania e Austria sono i Paesi che registrano le più alte percentuali di
cittadini stranieri sulla popolazione (circa il 9%). Svezia, Paesi Bassi e
Danimarca sono i Paesi con il più alto tasso di acquisizione di cittadinanza da
parte di immigrati stranieri, Lussemburgo e Grecia presentano invece i valori più
bassi. Nel 2001 il gruppo di immigrati provenienti da Paesi terzi più numeroso
nell’Ue era quello dei turchi: circa 2,4 milioni di persone, di cui 2 milioni
vivevano in Germania.
Per quanto riguarda
il motivo dei permessi di soggiorno rilasciati nell’Ue, nel complesso circa il
40% ha riguardato il lavoro (con punte dell’80% in Germania e Spagna) e il 30%
i ricongiungimenti familiari (70% in Svezia e 50% in Belgio e Danimarca). Il
Rapporto sottolinea inoltre come quelle a disposizione siano cifre non
estremamente esatte, sia perché non possono calcolare i flussi di immigrazione
illegale, piuttosto rilevanti nell’Ue, sia perché esistono dati solo parziali
sui flussi in uscita (rientri in patria, uscita dal mercato del lavoro) e sui
movimenti tra le varie tipologie di permessi di soggiorno. La Commissione
ricorda poi come, con la riunificazione europea dello scorso maggio, le
differenze tra immigrazione da Paesi terzi e mobilità interna si sono
modificate sostanzialmente. Il mantenimento nel lungo periodo da parte di alcuni
“vecchi” Stati membri delle restrizioni alla libera circolazione dei
lavoratori dei nuovi Stati, inoltre, potrebbe deformare il movimento dei flussi
migratori interni che comunque, prevede il Rapporto, saranno di entità
moderata.
ingressi
Tutti gli Stati membri prevedono canali
d’ingresso per lavoratori immigrati specializzati o designati in specifici
settori ma, sottolinea il Rapporto, non solo di questi lavoratori ha bisogno
l’Ue: soprattutto i Paesi dell’Europa meridionale e quelli di recente
immigrazione necessitano di molti lavoratori immigrati generici e a bassa
specializzazione. Accordi bilaterali con i Paesi vicini all’Ue e i Paesi terzi
sono senz’altro utili per rispondere alle necessità di manodopera, rileva il
Rapporto, ma è illusorio pensare di governare il fenomeno migratorio mirando a
politiche sempre più selettive. In un contesto generale di globalizzazione e
ristrutturazioni economiche, anzi, le esperienze, le capacità personali e
l’elevata adattabilità dei lavoratori immigrati alla complessità e ai
cambiamenti nella vita lavorativa sono fondamentali per il mercato del lavoro.
Secondo la Commissione, dunque, nel medio-periodo dovrebbe diventare normale
l’adozione di politiche di ammissione a favore dei lavoratori stranieri
immigrati evitando l’attuale prassi di “stop
and go”.
mercato del lavoro
Tra il 1997 e il 2002, si legge nel
Rapporto, il numero delle persone occupate nell’Ue a 15 è cresciuto di circa
12 milioni, oltre 2,5 milioni dei quali provenienti da Paesi terzi. Mentre la
percentuale di immigrati da Paesi terzi era nel 2002 del 3,6% sul totale degli
occupati, il loro contributo alla crescita dell’occupazione è stato del 22%.
Nell’ultimo decennio il tasso di
disoccupazione degli immigrati provenienti da Paesi terzi è stato circa il
doppio rispetto a quello dei cittadini dell’Ue nella maggior parte degli Stati
membri, mentre il loro tasso di occupazione è stato molto più basso (14 punti
percentuali in meno nel 2002), in particolare nella fascia dei lavoratori più
giovani e tra le mansioni ad alta specializzazione. I lavoratori immigrati non
solo sono concentrati in pochi settori occupazionali ma, all’interno di
questi, nei segmenti a più bassa specializzazione. Negli ultimi anni il numero
dei lavoratori immigrati mediamente specializzati è cresciuto del 50%, circa il
doppio di quello degli altamente specializzati, il che equivale a oltre il 60%
dell’incremento totale della loro occupazione. L’educazione, la cura e la
salute sono emersi come i nuovi settori di occupazione soprattutto per i nuovi
arrivati. Nel 2001, il tasso di occupazione dei nuovi immigrati era di circa 20
punti percentuali più basso di quello registrato tra gli immigrati arrivati
nell’Ue 10 anni prima. Nei nuovi Stati membri, la grande maggioranza dei
lavoratori immigrati è giunta da regioni limitrofe, come l’ex Unione
Sovietica e i Balcani.
integrazione
Per quanto concerne le politiche di
integrazione, pur tra approcci notevolmente differenti da Paese a Paese, il
Rapporto registra come le differenze riguardino soprattutto gli immigrati di
lungo termine, mentre per i nuovi arrivati (immigrati e rifugiati) presentino
maggiori similitudini. Alcune politiche risultano maggiormente centralizzate,
altre più decentrate, altre ancora prevedono un notevole coinvolgimento dei
partner sociali e delle organizzazioni non governative. In generale, i diversi
approcci e attori riflettono le diverse priorità politiche, la storia e i
percorsi delle migrazioni in ogni Paese. Tuttavia, non tutti gli Stati membri
sembrano dare la necessaria importanza alle misure antidiscriminatorie. Si
registra un crescente ma ancora limitato coinvolgimento delle parti sociali e
una scarsa valutazione degli effetti di tali politiche. Il Rapporto sottolinea
la necessità di migliorare in tutti gli Stati membri la possibilità di
partecipazione civica, culturale e politica degli stranieri, segnalando
l’importanza delle iniziative di alcuni Stati di riconoscere agli immigrati di
lunga residenza il diritto di voto alle elezioni locali.
Urgono inoltre azioni più efficaci per
ridurre il rischio di povertà ed esclusione sociale tra gli immigrati, con
attenzione particolare nella promozione dell’accesso a beni e servizi
(soprattutto sanitari). Destano poi preoccupazione le difficoltà riscontrate
dagli stranieri immigrati nell’accesso all’alloggio e il rischio derivante
dalle concentrazioni in aree urbane disagiate.
La lotta contro discriminazioni e
razzismo è resa particolarmente difficile nel clima socio-politico creatosi
negli ultimi anni, caratterizzato da un aumento della xenofobia e dalla
creazione di stereotipi negativi riguardanti gli stranieri cui hanno spesso
contribuito soggetti politici e operatori della comunicazione. Alle politiche di
integrazione, sostiene il Rapporto, devono essere affiancate misure per
eliminare le barriere discriminatorie e razziste, generalmente riconosciute ma
non sempre applicate efficacemente. Vanno estese le iniziative intraprese da
alcuni Stati membri di sviluppare specifici programmi di integrazione e
antidiscriminazione a favore di immigrati e rifugiati che coinvolgono autorità
nazionali, regionali e locali insieme alle organizzazioni della società civile.
I vari aspetti dell’immigrazione devono essere inseriti e presenti in tutte le
principali politiche e in esse non devono mai essere messe in secondo piano le
considerazioni di genere.
INFORMAZIONI: il Rapporto
integrale è disponibile sul sito web
http://www.statewatch.org/news/2004/jul/migration-com-04-508.pdf
ITALIA:
PRATICHE E LEGISLAZIONE DA RIVEDERE Nelle scorse settimane due fatti importanti hanno riguardato le questioni
dell’immigrazione e dell’asilo in Italia, due eventi che incideranno
sulla politica migratoria italiana e sul rapporto tra questa e la futura
politica comune europea. Il 15 luglio la Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge n. 189/2002 sull’immigrazione, meglio conosciuta come “Bossi-Fini”,
nella parte in cui prevede l’arresto obbligatorio in flagranza di reato
per lo straniero che abbia violato l’ordine di allontanamento
dall’Italia entro 5 giorni. In particolare, la Consulta ha ritenuto
illegittimo che l’immigrato possa essere espulso, dopo essere comparso
davanti al giudice per la convalida del provvedimento, senza
contraddittorio e garanzie di difesa. La sentenza, che mina il fondamento
della legge fortemente voluta dal governo Berlusconi, sancisce un
principio «ancora più rilevante nel caso della tutela del diritto
d’asilo, quando emerge il rischio che un comportamento arbitrario tenuto
dalla pubblica amministrazione violi norme internazionali e sia causa di
un rimpatrio coatto verso un Paese in cui la vita e l’integrità delle
persone possono essere messe a repentaglio» commenta Francesco Schiamone,
responsabile del Consorzio italiano di solidarietà (Ics). Eppure, negli
stessi giorni della sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale era in
corso la controversa vicenda della “Cap Anamur”, la nave cui le
autorità italiane hanno vietato per giorni l’attracco perché
trasportava 37 persone soccorse in mare mentre tentavano di raggiungere le
coste siciliane. La vicenda ha poi portato al fermo del capitano della
nave e si è conclusa il 21 luglio con l’espulsione dei profughi perché
considerati semplici immigrati illegali. Sull’intera vicenda e sul
comportamento delle autorità italiane, l’Associazione studi
giuridici sull’immigrazione (Asgi), l’Ics e l’Arci hanno reso noto
un comunicato in cui annunciano iniziative concrete, denunce
circostanziate (anche in sede penale) e ricorsi alla Corte europea dei
diritti dell’uomo «in merito al “trattamento” riservato dallo Stato
italiano alle 37 persone, raccolte in mare dalla nave, che sin
all’inizio si sono manifestate come richiedenti asilo, tanto da avere
inoltrato domanda alla Germania dopo che era stato loro rifiutato
l’attracco nel porto italiano». Le tre organizzazioni esortano a
denunciare in tutte le sedi «le gravissimi violazioni poste in essere dal
governo italiano: è stato illegittimamente vietato per giorni alla nave
di entrare in acque territoriali italiane nonostante il capitano avesse
informato l’autorità italiana di avere raccolto in mare un
gruppo di naufraghi; conseguentemente è stato vietato per giorni alle 37
persone di entrare in Italia per presentare domanda d’asilo, nonostante
avessero dichiarato al capitano della Cap Anamur tale intenzione;
costretto dagli eventi a consentire l’attracco, il governo italiano ha,
immediatamente, rinchiuso i richiedenti asilo in un centro di detenzione
amministrativa ad Agrigento, impedendo loro di entrare in contatto con le
associazioni di tutela e con legali e, quindi, negando innanzitutto il
diritto a una completa informazione sulle corrette procedure da
intraprendere per la tutela dei loro diritti». I 37 profughi, si legge
nel comunicato «sono stati trattati come “semplici” clandestini»,
quindi respinti «nonostante la stessa legge italiana vieti tali misure
nei confronti dei richiedenti asilo, e nonostante misure di tal genere
siano parimenti vietate dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del
1951 e dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
Oltre a violare le norme internazionali, conclude il comunicato, le
decisioni del governo italiano contraddicono anche i principi fondamentali
affermati dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione,
relativamente ai diritti di difesa e di ricorso che vanno riconosciuti
anche agli stranieri, «comunque presenti nel territorio nazionale». |
il
programma della presidenza olandese
Conquistare la
fiducia degli europei, rafforzare l’integrazione dei nuovi Stati membri,
continuare il processo di allargamento, senza aver paura dell’Islam, stimolare
la crescita economica, lottare efficacemente contro il terrorismo e la
criminalità organizzata, avere un ruolo di primo piano, insieme alle Nazioni
Unite, sui maggiori conflitti internazionali: sono questi i grandi temi sui
quali la presidenza di turno olandese dell’Unione europea intende puntare nel
corso del suo semestre che ha per motto “realismo e ambizione”.
L’obbiettivo
primario dell’Olanda, ha detto il primo ministro Jan Peter Balkenende
intervenendo il 21 luglio scorso al Parlamento europeo, è il consolidamento
dell’Ue e preparare il terreno al futuro allargamento. E riferendosi alla
prossima decisione sull’adesione della Turchia ha avvertito che «non
bisogna guardare con paura all’Islam, non bisogna erigere barriere contro le
religioni, ma contro gruppi che abusano delle religioni per trarne vantaggi».
Sulla Turchia ha chiesto «una decisione
onesta», che rispetti i criteri fissati a Copenaghen in particolare su
stato di diritto, diritti umani e ruolo dei militari. Balkenende ha quindi
affrontato il tema della ripresa economica ammettendo che quella europea «è
lenta e difficile per la debolezza della struttura dell’Unione, che ha muscoli
atrofizzati e usa poco la testa». Per il premier olandese occorre anche una
certa flessibilità per far fronte alla concorrenza che viene soprattutto dai
Paesi dell’Asia. Ha poi ricordato che oggi 400.000 ricercatori europei
lavorano negli Stati Uniti: «Occorre
creare un Consiglio europeo per la ricerca per rilanciare un settore vitale per
l’Ue». Riferendosi alle minacce del terrorismo e della criminalità
organizzata, Balkenende ha poi avvertito che in un’Europa con i confini aperti
occorre più cooperazione nel campo penale e su diritto d’asilo, lotta alla
clandestinità e rimpatri.
In tema di politica
estera, l’attuale presidente dell’Ue ha citato tra i suoi obbiettivi il
rafforzamento dei legami transatlantici e del processo di Barcellona,
rivendicando un maggior ruolo dell’Ue per la stabilità del Medio Oriente e
del Mediterraneo e, unitamente all’Onu, sul futuro dell’Iraq. La presidenza
di turno auspica inoltre rapporti più stretti con l’Asia e maggiori aiuti
all’Africa per combattere fame ed epidemie. Balkenende considera l’Europa «di
fronte a un paradosso: da un lato il sogno dei suoi padri fondatori appare
realizzato con un processo di allargamento che ha raggiunto risultati storici,
dall’altro manca la consapevolezza della cooperazione e della solidarietà, di
tutto quello che ci unisce. Occorre - ha sostenuto - non
aver paura delle critiche, ma dell’indifferenza».
Il programma
olandese è stato accolto dagli eurodeputati con valutazioni in generale
positive. Il presidente del Partito socialista europeo (Pse) Martin Schulz ha,
peraltro, chiesto interventi più decisi nei confronti degli Stati Uniti sulla
ratifica del Trattato di Kyoto, sulla Corte penale internazionale e sulla
situazione dei campi di detenzione di Guantanamo.
Alcuni eurodeputati
hanno ribadito la loro opposizione all’accordo con Washington sul
trasferimento dei dati dei passeggeri europei che si recano negli Stati Uniti.
I Verdi, tramite
Monica Frassoni co-presidente del gruppo, hanno anticipato che vigileranno sulle
prospettive finanziarie, criticando la resistenza degli Stati a contribuire al
bilancio dell’Ue, il programma delle grandi opere, i troppi fondi usati per
sussidiare l’agricoltura. Dalla sinistra rilievi al programma olandese sono
venuti, infine, soprattutto sul liberalismo economico, una strategia, ha detto
il comunista francese Francis Wurtz, già fallita con il patto di Lisbona. Gli
“euroscettici” hanno invece contestato soprattutto i programmi di
integrazione e, sull’adesione della Turchia, hanno rilevato che Ankara non
potrà mai rispondere ai “criteri di Copenaghen” in termine di libertà e
valori.
(Fonte:
Ansa)
Inflazione in crescita nell’Unione europea: è quanto emerge dai dati
forniti da Eurostat aggiornati al maggio scorso. Il tasso annuo è aumentato dal
2,0% registrato in aprile al 2,4% del maggio 2004 nell’Ue a 25 e dal 2,0% in
aprile al 2,5% in maggio nella zona euro. Solo un anno fa, il tasso di
inflazione era rispettivamente dell’1,7% nell’Ue a 25 e dell’1,8% nella
zona euro.
I tassi di inflazione annua più bassi nel maggio scorso sono stati
registrati in Finlandia (-0,1%),
Lituania (1%), Danimarca (1,1%) e Cipro (1,2%), mentre i più elevati sono
stati quelli di Slovacchia (8,2%), Ungheria (7,8%), Lettonia (6,1%) e Slovenia
(3,9%). Rispetto al mese precedente, cioè all’aprile 2004, il tasso di
inflazione annua è aumentato in 21 Stati membri, diminuito in uno e rimasto
stabile in tre.
Sui dodici mesi, dal maggio 2003 al maggio 2004, i tassi medi più deboli
sono stati rilevati in Finlandia (0,7%), Lituania (-0,8%), Repubblica Ceca
(1,1%), nonché in Danimarca, Germania ed Estonia (1,2% ciascuno); i più
elevati, invece, sono stati osservati in Slovacchia (8,7%), Ungheria (5,8%),
Slovenia (4,7%), e Lettonia (4,1%).
I principali elementi che hanno contribuito al rialzo dell’inflazione sono
stati, nel maggio 2004, le bevande alcoliche e il tabacco (8,4%) e la salute
(7,7%), mentre si sono rivelate più contenute le voci riguardanti le
comunicazioni (-1,9%), il tempo libero e la cultura (-0,1%). I carburanti hanno
avuto la più forte incidenza sul rialzo del tasso globale (0,33%), seguiti da
tabacco (0,27%) e nafta da riscaldamento (0,09%), mentre le telecomunicazioni
(-0,13%), l’abbigliamento (-0,09%) e le automobili (-0,08%) hanno avuto un
impatto minore.
Per quanto riguarda invece i tassi mensili, i più elevati sono stati
registrati per i trasporti (1,1%) e gli articoli di abbigliamento (0,5%), i più
bassi per le comunicazioni (-0,4%), il tempo libero e la cultura (-0,2%). In
particolare, i carburanti hanno avuto un forte impatto sul rialzo (+0,16%), così
come la nafta da riscaldamento e la frutta (+0,03% ciascuno), mentre altri
fattori tra cui viaggi, automobili, trasporto aereo, telecomunicazioni hanno
avuto influenza minore (-0,02% ciascuno).
Fonte: Eurostat, maggio 2004
Inflazione
nell’Ue (%misurata in IPCH*)
|
Tassi annuali |
Tassi medi su 12 mesi1 |
Tassi mensili |
||||
|
Maggio 04 |
Aprile 04 |
Marzo 04 |
Febbraio 04 |
Maggio 03 |
Maggio 04-03 |
Maggio 04 |
|
Maggio 03 |
Aprile 03 |
Marzo 03 |
Febbraio 03 |
Maggio 02 |
Maggio 03-02 |
Aprile 04 |
Belgio |
2,4
|
1,7
|
1,0
|
1,2
|
0,9
|
1,6
|
0,3
|
Germania |
2,1
|
1,7
|
1,1
|
0,8
|
0,6
|
1,2
|
0,2
|
Grecia |
3,1
|
3,1
|
2,9
|
2,6
|
3,5
|
3,2
|
0,4
|
Spagna |
3,4
|
2,7
|
2,2
|
2,2
|
2,7
|
2,7
|
0,6
|
Francia |
2,8p
|
2,4
|
1,9
|
1,9
|
1,8
|
2,2p
|
0,4p
|
Irlanda |
2,1
|
1,7
|
1,8
|
2,2
|
3,9
|
2,9
|
0,2
|
Italia |
2,3
|
2,3
|
2,3
|
2,4
|
2,9
|
2,6
|
0,2
|
Lussemburgo |
3,4
|
2,7
|
2,0
|
2,4
|
2,3
|
2,3
|
0,5
|
Paesi Bassi |
1,7p
|
1,5
|
1,2
|
1,3
|
2,3
|
1,8p
|
0,2p
|
Austria |
2,1p
|
1,5
|
1,5
|
1,5
|
0,9
|
1,3p
|
0,4p
|
Portogallo |
2,4
|
2,4
|
2,2
|
2,1
|
3,7
|
2,6
|
0,8
|
Finlandia |
-0,1 |
-0,4 |
-0,4 |
0,4 |
1,1 |
0,7 |
0,2 |
Zona euro (IPCUM2) |
2,5p |
2,0 |
1,7 |
1,6 |
1,8 |
2,0p |
0,3p |
Repubblica Ceca |
2,6
|
2,0
|
2,1
|
2,0
|
-0,3
|
1,1
|
0,6
|
Danimarca |
1,1
|
0,5
|
0,4
|
0,7
|
2,1
|
1,2
|
0,3
|
Estonia |
3,7
|
1,5
|
0,7
|
0,6
|
0,7
|
1,2
|
1,9
|
Cipro |
1,2
|
0,1
|
0,1
|
1,4
|
4,9
|
2,2
|
0,9
|
Lettonia |
6,1
|
5,0
|
4,7
|
4,3
|
2,5
|
4,1
|
1,3
|
Lituania |
1,0
|
-0,7
|
-0,9
|
-1,2
|
-0,8
|
-0,8
|
1,5
|
Ungheria |
7,8
|
7,0
|
6,6
|
7,0
|
3,5
|
5,8
|
0,9
|
Malta |
3,0p
|
3,6
|
0,5
|
0,9
|
2,7
|
1,9p
|
0,1p
|
Polonia |
3,5
|
2,3
|
1,8
|
1,8
|
0,3
|
1,5
|
1,1
|
Slovenia |
3,9
|
3,6
|
3,5
|
3,6
|
5,6
|
4,7
|
0,9
|
Slovacchia |
8,2
|
7,8
|
7,9
|
8,4
|
7,7
|
8,7
|
0,3
|
Svezia |
1,5
|
1,1
|
0,4
|
0,2
|
2,0
|
1,6
|
0,4
|
Regno Unito |
1,5
|
1,2
|
1,1
|
1,3
|
1,2
|
1,3
|
0,4
|
UE25 |
2,4p |
2,0 |
1,7 |
1,6 |
1,7 |
1,9p |
0,4p |
IPCE3 |
2,3p |
1,8 |
1,5 |
1,5 |
1,7 |
1,8p |
0,4p |
UE15 |
2,3p |
1,8 |
1,5 |
1,5 |
1,7 |
1,8p |
0,3p |
Islanda |
2,4
|
1,5 |
1,0 |
1,4 |
1,8 |
1,4 |
0,8 |
Norvegia |
1,0
|
0,4
|
-0,4
|
-1,5
|
1,8
|
0,5
|
0,1
|
EEE (IPCEEE4) |
2,3p |
1,8 |
1,5 |
1,5 |
1,7 |
1,8p |
0,3p |
* Indici dei
prezzi al consumo armonizzato (IPCA): sono concepiti per permettere la
comparazione internazionale dell’evoluzione dei prezzi al consumo. Mettono
l’accento sulla qualità e la comparabilità tra gli indici dei differenti
Paesi così come sui loro movimenti relativi. p:
dato provvisorio
1 Misura
utilizzata per determinare la stabilità dei prezzi nei rapporti di convergenza
1998, 2000 e 2002 della Commissione al Consiglio.
2 Indice dei
prezzi al consumo dell’Unione monetaria (IPCUM): espresso in euro, è
utilizzato dalla Banca centrale europea come
indicatore della politica monetaria nella zona euro.
3 Indice
europeo dei prezzi al consumo (IPCE): è
l’aggregato ufficiale dell’UE. Copre 15 Stati membri fino all’aprile 2004
e 25 Stati membri a partire da maggio 2004. I nuovi Stati membri sono integrati
nell’IPCE a partire da maggio 2004 con una formula secondo cui il tasso di
variazione annua di maggio 2004 corrisponde all’evoluzione tra maggio 2003 e
aprile 2004 per i 15 vecchi Stati membri combinati all’evoluzione tra aprile
2004 e maggio 2004 per i 25 Stati membri.
4 Indice dei
prezzi al consumo dello Spazio economico europeo (IPCEEE)
Sono trascorsi
tre anni dalle drammatiche giornate del luglio 2001 che caratterizzarono il G8
di Genova, culminate con l’uccisione di Carlo Giuliani il 20 luglio e la
sanguinosa irruzione poliziesca alla scuola Diaz nella notte tra il 21 e il 22.
Per non dimenticare quei giorni che hanno segnato uno dei punti più bassi per
la tutela dei diritti nell’Europa del dopoguerra, che hanno portato morte,
violenza e inammissibili abusi nelle strade e nella caserme del capoluogo
ligure, riteniamo doveroso informare sullo stato attuale delle inchieste e dei
processi.
due
processi
Dopo
l’archiviazione dei fatti di piazza Alimonia che causarono la morte di Carlo
Giuliani, attualmente sono in corso due processi. Il primo riguarda i fatti di
strada ed è contro 25 persone accusate di devastazione e saccheggio. L’ultima
udienza prima della pausa estiva si è tenuta lo scorso 14 luglio al tribunale
di Genova e ha concluso la fase di esame del materiale video prodotto
dall’accusa (un dvd delle durata di 3 ore e mezza) per motivare le imputazioni
contro i 25 manifestanti. La difesa deve invece confrontare il montaggio di
sequenze preparato dall’accusa con le immagini originali, studiare tagli e
montaggi per verificare se ci sono state manipolazioni. Un lavoro enorme a
carico del Genova legal forum, per il quale si sono già mobilitati alcuni volontari
ma che può essere supportato seguendo le informazioni contenute sui siti web
che segnaliamo a fondo pagina. La difesa, insieme ai vari comitati spontanei
nati dopo i gravi fatti del G8, sostiene infatti che il processo a carico dei 25
colpisce in realtà persone che si sono difese da cariche violente e
ingiustificate da parte delle forze dell’ordine (e chi era a Genova in quei
giorni non può avere molti dubbi in proposito), mettendo sotto accusa
l’intero complesso e variegato movimento che manifestava contro la
globalizzazione economica in atto. Mentre, sostengono i legali della difesa, una
verità processuale è la mancanza di interventi delle forze dell’ordine per
tutelare l’ordine pubblico (devastazioni e saccheggi non furono infatti
contrastati tempestivamente e in modo adeguato). Il secondo processo si è
invece aperto il 26 giugno scorso con l’udienza preliminare contro 29
poliziotti accusati di concorso in lesioni, falso ideologico e calunnia per
l’irruzione alla scuola Diaz nella notte del 21 luglio 2001. Durante la prima
udienza sono state depositate le costituzioni come parti civili delle vittime
della “perquisizione”: molte delle 93 persone che furono percosse e
arrestate e altri soggetti coinvolti nella perquisizione illegittima nella
scuola Diaz-Pascoli (di fronte al dormitorio), utilizzata come centro stampa.
L’udienza preliminare durerà almeno per tutta l’estate e solo alla fine il
giudice deciderà se ordinare un processo contro i 29 indagati o per una parte
di loro.
Al momento non si
può ancora prevedere se e quando sarà aperto un terzo processo, relativo a
quanto verificatosi nei giorni del G8 all’interno della caserma di Bolzaneto
e, a oltre 3 anni da quei fatti, c’è il rischio che si giunga alla
prescrizione.
petizione popolare
Intanto, da alcuni mesi il Comitato Verità e
Giustizia per Genova, il Comitato Piazza Carlo Giuliani e l’Arci hanno
promosso (ai sensi dell’art. 50 della Costituzione italiana) una petizione
popolare, intitolata “Mai più come al G8”, rivolta ai presidenti di Camera
e Senato affinché garantiscano interventi normativi volti a:
• Istituire una Commissione d’inchiesta
parlamentare che faccia luce sulle modalità complessive della gestione
dell’ordine pubblico durante il Vertice G8 di Genova e del Global Forum di
Napoli (marzo 2001), ove si è assistito a una vera e propria sospensione dei
diritti fondamentali (libertà di espressione, di circolazione, del diritto di
difesa, e dell’integrità fisica di migliaia di manifestanti), duramente
condannata da Amnesty International e
dallo stesso Parlamento europeo nelle Risoluzione sui Diritti Fondamentali
nell’Unione europea del 2001 e del 2003.
• Consentire l’identificazione del personale
delle forze dell’ordine in servizio di ordine pubblico, stabilendo l’obbligo
di utilizzare codici identificativi sulle uniformi.
• Programmare un costante aggiornamento
professionale delle forze dell’ordine e attività didattiche finalizzate a
promuovere i principi della nonviolenza, una coscienza civica e una deontologia
professionale conformi alle loro funzioni difensive e nonviolente.
• Escludere l’utilizzo, nei servizi di ordine
pubblico e comunque dalla dotazione del personale delle forze dell’ordine, di
sostanze chimiche ed incapacitanti, delle quali sia accertata la dannosità e
gli effetti irreversibili per la salute umana; nonché disporre una moratoria
nell’utilizzo dei gas CS, fino a che non ne sia scientificamente definito il
rischio per la salute dei lavoratori delle forze dell’ordine e della
cittadinanza.
• Adeguare il nostro ordinamento alle convenzioni
internazionali in materia di diritti umani introducendo il reato di tortura.
INFORMAZIONI:
www.veritagiustizia.it; www.piazzacarlogiuliani.org; www.reti-invisibili.net;
www.Italy.indymedia.org
RAPPORTO
SUI DIRITTI GLOBALI 2004 E’
in libreria da giugno la seconda edizione del “Rapporto diritti globali
2004”, curato dall’Associazione SocietàInformazione e promosso dalla
Cgil nazionale in collaborazione con il Coordinamento nazionale delle
Comunità di accoglienza (Cnca), Arci, Legambiente e Antigone. Il Rapporto
fotografa lo stato dei diritti e analizza le politiche per una loro
maggiore affermazione a livello locale e globale. E’ suddiviso in
quattro sezioni: diritti economico-sindacali; diritti sociali; diritti
umani, civili e politici; diritti globali ed ecologico-ambientali,
articolate in 18 capitoli. In ogni capitolo viene analizzato e definito il
punto della situazione e vengono delineate le prospettive del 2004.
L’analisi e la ricerca sono corredate da ampie cronologie dei fatti,
schede tematiche, dati statistici aggiornati, glossario, riferimenti
bibliografici e web. Si tratta di un Rapporto unico nel suo genere, utile
per arricchire la formazione e supportare l’attività quotidiana di
coloro che operano nel mondo del lavoro, nell’informazione, nelle
professioni sociali, nella scuola, nel volontariato e nella politica. Rapporto diritti globali 2004, 1047 pagine, 22 euro, Casa editrice Ediesse;
www.ediesseonline.it |
il
lavoro come patrimonio dell’umanità
E’
in corso a Barcellona il Forum Universale delle Culture che, su iniziativa del
Comune di Barcellona e con la partecipazione di Generalitat di Catalunya e del
governo spagnolo, ospita da maggio e fino a settembre decine di eventi
focalizzati su tre tematiche principali: la diversità culturale, la pace e lo
sviluppo sostenibile.
Il Forum, a
carattere mondiale, è aperto a tutti i cittadini e riunisce in sessioni
tematiche, denominate Dialoghi, organizzazioni sociali, accademiche, società
civile, parlamenti, governi, gruppi e organizzazioni.
In questo
contesto, su proposta dell’Unione Generale dei Lavoratori di Catalogna (UGT) e
delle Commissioni Operaie di Catalogna (CCOO), il comitato organizzatore del
Forum ha promosso un Dialogo sulle Culture del Lavoro che si è svolto nei
giorni 28 giugno - 1° luglio scorsi.
L’iniziativa
sindacale, attraverso conferenze e gruppi di lavoro, ha trattato molti temi:
etica del lavoro, nuove forme di lavoro, tempi di lavoro, femminilizzazione del
mercato del lavoro, immigrazione e occupazione, poteri pubblici e occupazione,
lavoro ed ecosistema, crescita e occupazione, lavoro dignitoso, commercio
internazionale e diritti sociali, sindacato e imprese multinazionali.
Inoltre, su
iniziative della Confederazione europea dei sindacati (Ces), si sono tenute due
importanti iniziative: la conferenza dei rappresentati sindacali nei Comitati
aziendali europei (Cae) e l’incontro dei “gruppi giovani” dei sindacati.
L’organizzazione
dell’evento è stata curata da un Comitato Internazionale, presieduto da
Emilio Gabaglio (ex segretario generale della Ces), di cui facevano parte la
Cisl Internazionale, la Ces, le Confederazioni sindacali Ugt e CcOo, nazionali e
di Catalogna, oltre all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil).
Il Dialogo sulle Culture del Lavoro si è concluso con una
dichiarazione finale inviata all’Unesco (che pubblichiamo di seguito), nella
quale si chiede di dichiarare il lavoro come “patrimonio dell’umanità”.
«All’inizio del nuovo secolo,
nonostante gli straordinari progressi raggiunti nel mondo, come mai prima nella
storia in campo tecnologico e scientifico e nella disponibilità di risorse
materiali, la situazione riguardante il lavoro non potrebbe essere più
preoccupante.
Centinaia di milioni di uomini e donne si vedono negare
l’accesso a un lavoro dignitoso. La disoccupazione continua a essere presente
in molti Paesi e troppo spesso le nuove forme di lavoro, lungi dal migliorarne
la qualità, ne incrementano la precarietà.
Il lavoro infantile continua a essere una realtà molto
estesa e quello femminile è trattato in modo discriminatorio.
A loro volta, i diritti dei lavoratori subiscono tagli di
ogni tipo, sotto la pressione e il ricatto di una globalizzazione di impronta
neoliberista, diventata il maggior veicolo di deregolamentazione sociale, in
nome di una competitività elevata a unico criterio delle scelte economiche.
È necessario e urgente un cambiamento di rotta nelle
politiche nazionali e internazionali, per iniziare un nuovo ordine economico e
sociale più giusto e solidale, centrato sullo sviluppo sostenibile e sul lavoro
dignitoso, con diritti per tutti e tutte.
Di fronte a questa sfida, anche il movimento sindacale
deve serrare le fila, unire le forze, trovare nuova unità a livello mondiale e
ricercare contemporaneamente convergenze con altri soggetti che condividono le
stesse critiche alla situazione attuale e perseguono gli stessi obbiettivi
futuri.
Tuttavia, questo cambiamento di rotta non avverrà se non
si ristabilirà una nuova gerarchia di valori che consideri il lavoro con la
priorità che ad esso spetta, come uno degli elementi più importanti
dell’attività umana, e sino a quando le culture del lavoro non torneranno a
permeare la vita culturale e tutti gli altri ambiti delle nostre società.
Per questo motivo occorre cambiare la visione che riduce
il lavoro a una semplice variabile economica, disconoscendo il significato che
assume nella vita delle persone e l’importanza come fattore di integrazione
sociale e di cittadinanza.
In questo senso facciamo appello al riconoscimento del
lavoro come patrimonio dell’umanità, come segnale di una nuova presa di
coscienza del valore inestimabile del lavoro e della necessità di renderlo
accessibile a tutti e a tutte con pienezza di diritti e di dignità».
Dichiarazione finale del Dialogo sulle
Culture del Lavoro, Forum Universale delle Culture, Barcellona 28 giugno - 1°
luglio 2004
Europarlamento: Borrell nuovo presidente
Il socialista spagnolo Josep Borrell
Fontelles è stato eletto lo scorso 20 luglio al primo turno presidente del
nuovo Parlamento europeo. Alla votazione, cui hanno partecipato 700 deputati sui
732 eletti, Borrell ha ottenuto 388 voti, il polacco Bronislav Geremek 208, il
francese Francis Wurz 51, mentre le schede bianche e nulle sono state 53. Il
mandato del neoeletto presidente durerà fino alla fine del 2006. Borrell,
ingegnere elettronico catalano di 57 anni e più volte ministro nel suo Paese,
ha rivolto un saluto particolare ai deputati dei nuovi Stati membri dell’Ue,
ricordando che la riunificazione europea mette fine a quello che lo scrittore
Milan Kundera aveva definito «il sequestro di metà dell’Occidente».
Felicitandosi con Borrell per la sua elezione, il presidente della Commissione
europea Romano Prodi (in scadenza di mandato) ha sottolineato la necessità di
un rapporto stretto e proficuo tra Commissione e Parlamento: «Insieme - ha
detto Prodi - Commissione e Parlamento dovranno imprimere un nuovo slancio nella
costruzione europea».
Commissione: Barroso sostituirà Prodi
Il 22 luglio
scorso, due giorni dopo l’elezione del nuovo presidente del Parlamento europeo
(Pe), è stato lo stesso neoeletto presidente Josep Borrell ad annunciare il
nome del futuro presidente della Commissione europea che sarà designata dai
capi di Stato e di governo europei il prossimo 13 settembre: si tratta del
portoghese José Manuel Durao Barroso, che dal Pe ha ottenuto 413 voti
favorevoli e 251 contrari (44 schede bianche e 3 nulle). Barroso, che ha dichiarato di
volere almeno 8 donne nel suo esecutivo, ha annunciato che l’organico della
futura Commissione sarà completato entro il 23 agosto, cioè tre giorni dopo la
scadenza data ai governi dei 25 Stati membri per comunicare i loro candidati,
anche se al momento quasi tutti i governi europei hanno già deciso i nomi dei
loro commissari (per l’Italia sarà Rocco Bottiglione).
Il prossimo 8 settembre, poi, i nomi
saranno resi noti al Comitato formato dagli ambasciatori dei 25 (Coreper) e il
13 la nuova Commissione sarà ratificata dal Consiglio dei ministri europei. A
quel punto saranno definiti gli incarichi dei commissari e comincerà la
procedura delle audizioni davanti alle commissioni del Parlamento europeo che
dovrà dare la sua approvazione entro ottobre, così che la Commissione Barroso
possa insediarsi al posto di quella Prodi il 1° novembre prossimo, come
previsto, per un mandato di cinque anni.
La scelta del nuovo presidente è stata
criticata dalla sinistra europea e da una minoranza dei socialisti europei, che
considerano Barroso un convinto neo-liberista eccessivamente vicino alle
posizioni dell’attuale amministrazione statunitense e la sua una candidatura
debole perché frutto di un compromesso politico definito “al ribasso”. Dal
canto suo, Barroso ha promesso che presiederà una Commissione forte e
indipendente, dove chi non si dimostrerà all’altezza sarà sostituito, non ci
saranno membri di prima e di seconda categoria e che le pressioni dei governi
non gli impediranno di distribuire gli incarichi secondo i suoi criteri. Entro
poche settimane si potrà capire che tipo di esecutivo europeo prenderà il
posto della Commissione Prodi.
definito il nuovo
Fondo sociale europeo
La
Commissione ha adottato il 15 luglio scorso un pacchetto di proposte destinate a
razionalizzare e a rendere più mirati i finanziamenti destinati alla politica
sociale e occupazionale dell’Ue. Il nuovo Fondo sociale europeo (Fse) per il
periodo 2007-2013 collegherà i finanziamenti alle politiche, al fine di
favorire l’occupazione e rafforzare la coesione economica e sociale nel
contesto della Strategia europea per l’occupazione (Seo). Con meno ostacoli
burocratici, norme più semplici e una maggiore decentralizzazione verso gli
Stati membri, sarà più facile da gestire e maggiormente in grado di affrontare
le nuove sfide derivanti dall’allagamento, dall’invecchiamento della
popolazione e dalla globalizzazione. Il nuovo Fse sarà integrato da un nuovo
programma che razionalizzerà i finanziamenti per altre azioni a sostegno della
politica sociale e occupazionale della Commissione.
«Si
tratta di iniziative che riguardano le sfide più impegnative affrontate dalle
persone nella vita quotidiana: lavoro, povertà e discriminazione - ha affermato
il commissario all’Occupazione e Affari sociali Stavros Dimas - Concentrando i
nostri sforzi su queste problematiche e rafforzando la capacità dei governi
nazionali a risolverle con maggiore efficacia, l’Europa può realmente fare la
differenza».
Il
Fse coprirà due dei tre obiettivi relativi al finanziamento della coesione nel
nuovo quadro finanziario. Interverrà in importanti settori d’azione approvati
dal Consiglio europeo: rafforzare la capacità di adattamento dei lavoratori e
delle imprese, facilitare l’accesso al mercato del lavoro, prevenire la
disoccupazione, prolungare la vita lavorativa, promuovere l’integrazione delle
persone emarginate e svantaggiate, nonché combattere la discriminazione. In
base alla proposta della Commissione il Fse rappresenterà il 20-25% dei
finanziamenti complessivi destinati alla coesione.
Sarà
promossa la parità di opportunità per donne e uomini, associata ad azioni
destinate specificamente alle donne. Il buon governo e il potenziamento delle
istituzioni costituiscono un’ulteriore priorità. La dimensione ambientale sarà
presa in considerazione nei progetti approvati.
Nel
contesto del nuovo obiettivo 1, “Convergenza - crescita e occupazione”,
l’azione del Fse sarà incentrata sugli Stati membri e sulle regioni meno
sviluppati (che sono aumentati in seguito all’allargamento dell’Ue). Per
quanto concerne il nuovo obiettivo 2, “Competitività regionale e
occupazione”, il Fse finanzierà progetti a livello nazionale in settori
caratterizzati da mutamenti economici e sociali o da ristrutturazioni derivanti
dalla globalizzazione negli Stati membri che non hanno diritto a finanziamenti
in base all’obiettivo 1. La Commissione ha inoltre adottato una proposta
relativa a un nuovo programma (Progress) che riguarderà cinque settori:
occupazione, protezione e inclusione sociale, condizioni di lavoro, lotta alla
discriminazione e diversità, parità di genere. Completando l’azione
intrapresa dal Fondo sociale europeo, il programma finanzierà studi, campagne
di sensibilizzazione, scambi di informazioni e di pratiche ottimali, attività
di controllo e di valutazione, così come iniziative di collegamento in rete.
Progress rafforzerà il “metodo di coordinamento aperto” per gli scambi tra
Stati membri nel settore dell’occupazione e della protezione sociale. La
Commissione propone di dotarlo di un bilancio di poco superiore a 600 milioni
per un periodo di 7 anni. Proposte destinate a “sostenere il dialogo sociale,
la libera circolazione dei lavoratori e l’analisi demografica” saranno
presentate in una fase successiva.
INFORMAZIONI:
http://europa.eu.int/comm/employment_social/news/2004/jul/com_2004_493_en.pdf
(Fonte:
InEurop@)
lavoro “non dichiarato” nell’Ue
La Commissione europea ha reso noto il 2
luglio scorso uno studio contenente la prima stima sull’entità del lavoro non
dichiarato negli Stati membri dell’Ue a 25. Le stime, non disponibili per
alcuni Paesi, prendono in considerazione anni differenti di rilevazione e
variano sensibilmente, mostrando valori minimi equivalenti a percentuali
dell’1,5% del Pil in Austria e del 2% nel Regno Unito fino ai valori massimi
registrati in Grecia (20%), Lettonia e Ungheria (18%). Anche per l’Italia la
stima sulla percentuale di lavoro non dichiarato è molto elevata: 16-17% del
Pil. Lo studio, pur basato su stime e riportando per molti Paesi valori non
molto aggiornati, mostra comunque un quadro generale piuttosto preoccupante che
porta la Commissione europea ad esortare tutti gli Stati membri affinché
adottino iniziative per l’emersione del lavoro non dichiarato e la sua
trasformazione in occupazione regolare.
Lo studio “Undeclared work in an enlarged Union” è consultabile
all’indirizzo web
http://europa.eu.int/comm/employment_social/employment_analysis/work_enlarg_en.htm
Paesi |
Lavoro non
dichiarato |
Anno |
|
in % sul
PIL |
|
Austria |
1,5% |
1995 |
Belgio |
3-4% |
1995 (confermato
nel ‘97 e ‘99) |
Cipro |
3,2% |
2003 |
Danimarca |
5,5% |
2001 |
Estonia |
8-9% |
2001 |
Finlandia |
4,2% |
1992 |
Francia |
4-6,5% |
1998 |
Germania |
6% |
2001 |
Grecia |
>20% |
1998 |
Irlanda |
n.d. |
|
Italia |
16-17% |
1998/2001 |
Lettonia |
18% |
2000 |
Lituania |
15-19% |
2003 |
Lussemburgo |
n.d. |
|
Malta |
n.d. |
|
Paesi Bassi |
2% |
1995 |
Polonia |
14% |
2003 |
Portogallo |
5% |
1996 |
Regno Unito |
2% |
2000 |
Repubblica
Ceca |
9-10% |
1998 |
Slovacchia |
13-15% |
2000 |
Slovenia |
17% |
2003 |
Spagna |
n.d. |
|
Svezia |
3% |
1997 |
Ungheria |
18% |
1998 |
n.d.: dato
non disponibile
Fonte:
Commissione europea, “Undeclared work in an enlarged Union. An analysis of
undeclared work: an in-depth study of specific items”, maggio 2004.
appello europeo contro le esecuzioni
negli Usa
L’Unione europea,
insieme ad altri 23 Stati e un gruppo di premi Nobel tra cui gli ex presidenti
Jimmy Carter e Mikhail Gorbaciov, ha presentato lo scorso 19 luglio un appello
alla Corte Suprema degli Stati Uniti per bloccare le esecuzioni di persone che
abbiano compiuto omicidio quando erano minorenni. Gli Stati Uniti, infatti, sono
fra i pochissimi Stati ad applicare la pena di morte per delitti commessi da
minorenni, «dimostrando non solo grande ipocrisia, ma mettendo anche in
pericolo i diritti di molti nel mondo», si legge nell’appello presentato in
vista del parere che la Corte emetterà in autunno sulla costituzionalità di
questo tipo di esecuzioni. «I Paesi che vengono tacciati dagli Stati Uniti di
non rispettare i diritti umani non vedranno mai un motivo per migliorare, se gli
Stati Uniti sono i primi a non rispettare gli standard fondamentali», continua
l’appello firmato anche dai governi di Messico e Canada.
(Fonte:
Ansa)
Patto di stabilità e governance
economica
I ministri delle finanze dell’Ue
decideranno a metà settembre, alla loro riunione informale che terranno in
Olanda, di dotare l’Eurogruppo di un presidente stabile, con un mandato di 30
mesi anziché dei 6 consueti. Nello stesso mese la Commissione europea presenterà
una comunicazione con le sue proposte per migliorare l’applicazione del Patto
di stabilità e di crescita e la governance economica. La sentenza della Corte
di giustizia del Lussemburgo sul ricorso della Commissione contro il
congelamento delle raccomandazioni antideficit nei confronti di Germania e
Francia ha spinto l’esecutivo europeo ad accelerare i tempi di presentazione
delle sue proposte.
Settembre ed ottobre saranno dunque mesi importanti per capire come si risolverà
il contenzioso sui poteri di indirizzo economico e di sorveglianza dei bilanci
tra Commissione e governi nazionali, che ha segnato quest’ultimo anno. Quella
del presidente dell’Eurogruppo (definito comunemente “Mister euro”) è una
figura prevista dalla nuova Costituzione e che dovrebbe entrare in carica solo
dopo la ratifica della Carta, cioè tra almeno due anni. I ministri europei
stanno però valutando la possibilità di anticiparne i tempi. La Francia ha
indicato Jean-Claude Juncker come il primo possibile presidente dell’Eurogruppo:
dal primo gennaio 2005, infatti, il premier e ministro delle Finanze del
Lussemburgo assumerà le funzioni di presidente di turno dell’Ue e continuerà
a presiedere l’Eurogruppo anche nel semestre successivo, in quanto la Gran
Bretagna, che assumerà nel luglio 2005 la presidenza di turno dell’Ue, non fa
parte della zona euro. L’ipotesi è dunque di allungare di un altro anno e
mezzo la presidenza di Juncker alla guida dell’Eurogruppo, anticipando così
la Carta costituzionale.
Tra le proposte della Commissione sono
previste: una maggiore attenzione al debito e alla sostenibilità delle finanze
pubbliche durante il processo di sorveglianza dei bilanci, maggiori incentivi
per il risanamento dei conti pubblici durante i periodi di crescita economica e
più attenzione alle circostanze specifiche dei singoli Paesi membri nel momento
in cui vengono definiti gli obiettivi di bilancio di medio periodo.
(Fonte:
Ansa)
anche l’Ue contro il muro israeliano
«L’Unione europea
chiede con forza a Israele di rimuovere il muro dai territori palestinesi».
Secondo la Commissione europea e la presidenza olandese dell’Ue, infatti,
l’allontanamento del tracciato del muro dalla linea dell’armistizio del 1949
è in contraddizione con le norme della legge internazionale e rappresenta un
serio motivo di scontro, rendendo praticamente impossibile la soluzione di due
Stati indipendenti. La posizione dell’Unione europea sulla questione del muro,
che le autorità israeliane stanno facendo innalzare per separare il territorio
di Israele da quello palestinese, e è stata espressa in seguito alle condanne
pronunciate dalla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja e dalle Nazioni
Unite nelle scorse settimane. Secondo l’Alto rappresentante per la politica
estera e di sicurezza comune europea (Pesc), Javier Solana, il muro che Israele
sta costruendo «rappresenta una confisca di territorio palestinese». Anche se
Israele ha il diritto all’autodifesa di fronte agli attacchi terroristici, ha
aggiunto Solana, «il muro non solo rappresenta una confisca del territorio
palestinese e causa difficoltà umanitarie ed economiche, ma potrebbe anche
mettere a rischio i futuri negoziati e influenzare negativamente una giusta
soluzione politica del conflitto». L’Ue ritiene che una soluzione possa
essere raggiunta solo attraverso negoziati tra le parti e, come ha osservato la
Corte nella sua opinione, la “Road map” approvata dal Consiglio di sicurezza
dell’Onu rappresenta il più recente sforzo per avviare i negoziati.
La presidenza olandese dell’Ue ha
ribadito che il processo politico «rappresenta l’unica strada per raggiungere
una soluzione negoziata di due Stati d’intesa fra le due parti, che porterebbe
a uno Stato palestinese indipendente, sovrano, contiguo e fattibile che coesista
in pace con Israele all’interno di frontiere riconosciute e sicure».
Il governo
israeliano si è detto «particolarmente deluso dalla posizione europea»
sollevando dubbi sulla «capacità dell’Ue di dare un qualsiasi contributo
costruttivo al processo diplomatico» di pace in Medio Oriente. Va però
ricordato che, oltre alla Corte di Giustizia dell’Aja e alle Nazioni Unite,
anche l’Alta Corte israeliana di Gerusalemme ha ordinato nelle scorse
settimane al governo israeliano di ridisegnare il tracciato del muro al fine di
ridurre al minimo i disagi e le sofferenze inflitte alla popolazione civile
palestinese. Sentenza che il governo Sharon si è impegnato a rispettare, a
differenza di quanto farà in merito all’opinione della Corte dell’Aja e
alla risoluzione dell’Onu.
Pil pro capite nel 2003 in Spa1
(Ue25 = 100)
Lussemburgo
|
208 |
Grecia |
79
|
Irlanda |
131
|
Slovenia |
77
|
Danimarca |
123
|
Portogallo |
75 |
Austria |
121
|
Malta |
73
|
Paesi Bassi
|
120
|
Repubblica
Ceca |
69
|
Regno Unito
|
119
|
Ungheria |
61
|
Belgio |
116
|
Slovacchia |
51
|
Svezia |
115
|
Estonia |
48
|
Francia |
113
|
Lituania |
46
|
Finlandia |
111
|
Polonia |
46
|
UE15 |
109 |
Lettonia |
42 |
Germania |
108
|
Norvegia |
149
|
Italia |
107
|
Svizzera |
129
|
Zona euro |
107 |
Islanda |
116
|
UE25 |
100 |
Romania |
30
|
Spagna |
95
|
Bulgaria |
29
|
Cipro |
83
|
Turchia |
27
|
Oltre ai 25
Stati membri dell’Ue sono presi in considerazione i Paesi Aele (Islanda,
Norvegia e Svizzera, mentre non sono disponibili i dati relativi al
Liechtenstein) e i Paesi candidati (Bulgari, Romania e Turchia).
1 Standard di potere di acquisto (Spa): è una moneta
artificiale che evidenzia le differenze tra
i livelli di prezzi nazionali che non considerano i tassi di cambio. Questa unità
permette di fare dei paragoni significativi di indicatori economici espressi in
volume tra i Paesi.
Fonte: Eurostat,
Statistiche in
breve, Economia e finanza, giugno 2004 n. 27