l'Ue ricomincia da tre

Si è fatto un gran parlare del Vertice a tre - Germania, Francia, Gran Bretagna -riunitosi a Berlino il 18 febbraio scorso. Per la verità, motivi di attenzione se non di stupore o di preoccupazione ve n'era più di uno: l'insolita presenza britannica con la più tradizionale accoppiata franco-tedesca; l'assenza dell'altro (quarto), "grande" Paese, l'Italia; i temi all'ordine del giorno concentrati più sull'economia che sulla politica; il luogo stesso dell'incontro, quella Berlino che sembra candidarsi come la nuova capitale geo-politica della futura Unione allargata a venticinque Paesi dal 1° maggio prossimo.
Nella storia dell'Unione europea sono ormai tradizione consolidata - e perlopiù benefica per l'integrazione europea - gli incontri tra Francia e Germania, due grandi Paesi fondatori dell'Ue, ma anche due irriducibili (fino al 1945) ex-belligeranti nella storia di guerre infinite dell'Europa. Senza troppi problemi, i partner europei hanno visto funzionare in questo mezzo secolo di Unione l'"asse franco-tedesco" e spesso vi hanno riconosciuto una utile funzione di traino per il processo di unificazione, al punto di considerarlo come una provvidenziale "locomotiva" europea. Qualche dubbio sulla natura benefica dell'"asse" si era tuttavia affacciato dopo lo scorso Vertice di Bruxelles, quello che, sotto presidenza italiana, aveva registrato il fallimento (si pensa provvisorio) del progetto di Costituzione europea. Qualcuno aveva letto nella fermezza della posizione franco-tedesca -reduce peraltro dalla clamorosa rottura del Patto di stabilità - l'annuncio di un'arroganza che avrebbe potuto inquietare per gli sviluppi futuri dell'Unione. Sullo sfondo rimaneva irrisolta la dolorosa controversia che aveva diviso i governi dell'Ue alla vigilia della guerra in Irak e che aveva visto nell'asse franco-tedesco un argine all'intervento militare.
E forse è proprio questo scenario di fondo che può aiutare a capire la sorprendente presenza inglese al tavolo di Berlino, proprio di quel Tony Blair - politico la cui determinazione sfiora la spregiudicatezza - volato un anno fa in soccorso di Bush e della sua coalizione guerriera. Insieme, quei tre, oltre a rappresentare più della metà della ricchezza complessiva dell'Ue a venticinque,detengono anche oltre metà del potenziale di difesa e di armamenti e la somma dei rispettivi "patrimoni" può aiutare a capire questo insolito "matrimonio" atre, dove il nuovo arrivato, la Gran Bretagna, potrebbe offrire un "ponte"sull'Atlantico e aiutare a ricucire un'alleanza anche in vista dell'esito delle elezioni del novembre prossimo negli Stati Uniti.
Se così fosse, a Berlino ci sarebbe stata non una banale mossa tattica per posizionarsi all'interno di questa Unione oggi un po'rissosa, ma forse il primo e ancora confuso segnale di una nuova visione strategica dei tre "grandi", più preoccupati del futuro governo del mondo che delle interminabili dispute nell'angusto cortile dell'Europa.
Unica assente tra i "grandi" - per di più uno tra i Paesi fondatori della Cee - era l'Italia. Non sarebbe stata una novità se si fosse trattato solo di un incontro franco-tedesco, ma visto che al tavolo c'era anche l'"amico Tony" resta difficile non prenderla come un antipatico sgarbo. Irritati, i nostri governanti hanno liquidato l'iniziativa di Berlino come un "pasticcio" e il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha fatto balenare l'idea di un futuro tavolo "euro mediterraneo". Se era una minaccia è improbabile che abbia fatto tremare i tre di Berlino; se era una proposta sarebbe stata più credibile se ci fosse stato fornito qualche ulteriore dettaglio.
Certo, l'assenza dell'Italia "brucia" e annuncia un futuro di scarso protagonismo del nostro Paese nell'Unione che si sta allargando. Visto che già non ci è favorevole la geografia per stare al centro del gioco, sarebbe utile far leva sulla politica. Ma per fare ciò mancano a questa Italia di oggi due strumenti indispensabili: la credibilità internazionale e la capacità di iniziativa. La prima, uscita malconcia dalla nostra storia del secolo scorso, è stata praticamente azzerata dalla recente diplomazia della "pacca sulla spalla" che non si nega a nessuno: da Bush a Gheddafi, da Putin a Blair con i risultati che si sono visti in questi mesi e che l'incontro di Berlino ha confermato. Quanto alla capacità di iniziativa e di proposta, basta ricordare il miserabile risultato che la presidenza italiana ha ottenuto nel corso del suo semestre di presidenza dell'Ue culminato, lo scorso dicembre, nel fallimento del Consiglio europeo di Bruxelles.
Saggiamente, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi aveva suggerito, in caso di fallimento della Costituzione, un'iniziativa comune dei sei Paesi fondatori. Rispedito al mittente questo suggerimento,l'Italia ha firmato un'improbabile "lettera dei Sei", soltanto che a fare sei con l'Italia c'erano Estonia, Polonia, Spagna, Olanda e Portogallo: tutti rispettabili partner, ma non proprio una compagnia da fare grande impressione nell'Europa a venticinque e ancor meno nel mondo agitato in cui viviamo.
Che i nostri governanti, cedendo alla tentazione dell'arroganza, abbiano dimenticato la buona vecchia regola secondo cui in politica - soprattutto internazionale - è meglio essere gli ultimi dei primi,piuttosto che i primi degli ultimi?


elezioni europee:istruzioni per l'uso
di Franco Chittolina

Poche settimane ci separano ormai dalle prossime elezioni europee di giugno ed è tempo di rinfrescarsi la memoria sulla loro natura, gli obiettivi che perseguono e le regole che le governano.
Si tratta di un richiamo urgente ad alcune informazioni essenziali, prima che la polemica politica e la prevedibile confusione che ne deriverà, anche per la simultaneità delle elezioni locali e l'esasperazione della dimensione nazionale della competizione europea, provochino polveroni che poco giovano alla democrazia.

una democrazia "giovane e incompiuta"

L'Unione europea esiste da quasi cinquant'anni, ma solo da venticinque i suoi cittadini sono chiamati alle urne per esprimere la loro volontà attraverso il suffragio universale e diretto. Fino al 1979, infatti, il Parlamento europeo - che nei primi Trattati si chiamava più modestamente "Assemblea" - era ricavato da delegazioni provenienti dai Parlamenti nazionali senza un voto diretto e specifico dei cittadini.
In venticinque anni di cose ne sono cambiate, ma non al punto da lasciarsi alle spalle quella cultura dell'approccio prevalentemente nazionale e indiretto al governo delle politiche europee e non stupisce quindi se, ancora oggi, il coinvolgimento degli elettori resta molto limitato. Eppure, per gli elettori europei la posta in gioco è sempre più alta, perché sempre più ampie sono le responsabilità affidate all'Unione europea e quindi sempre più determinante l'impatto delle sue decisioni sulla nostra vita quotidiana.
Dei pesanti limiti della nascente democrazia europea lasciatici dall'eredità dei primi anni dell'Unione - che non a caso i cittadini chiamavano, e talvolta ancora chiamano, col nome non proprio ambizioso di"mercato comune" - restano evidenti tracce nel dibattito politico attualmente in corso.
Prima pesante conseguenza, l'esasperata "nazionalizzazione" della consultazione europea, che agli occhi di molti (troppi) politici nostrani sembra esaurirsi in una conta di voti per misurare il consenso che maggioranza e opposizione possono far valere in un confronto politico tutto nazionale, se non addirittura come un test in vista di future elezioni politiche nazionali, considerate come quelle che solo contano veramente.
E quando si parte con il piede sbagliato è inevitabile che si finisca per camminare di traverso. A cominciare dai temi che vengono dibattuti, che poco o nulla hanno a che vedere con l'Europa, fino alla scelta dei candidati il cui profilo poco tiene conto delle competenze che esigerebbe l'esercizio serio del mandato europeo.

parlamentari onnivori e assenti

È in questo groviglio di contraddizioni che trova origine il dibattito di questi giorni in Italia sul "doppio mandato". Poiché la regolamentazione europea non fa divieto di esercitare un doppio mandato parlamentare - quello europeo e quello nazionale - molti sono a tutt'oggi i parlamentari europei che sono simultaneamente anche membri dei rispettivi Parlamenti nazionali.
Per giustificare questa assai discutibile (e diffusa) situazione sono stati invocati diversi argomenti. Due avevano nei primi anni dell'Unione una relativa credibilità: la necessità di raccordare strettamente, addirittura nella persona fisica del parlamentare, la decisione europea con quella nazionale e così far crescere la coerenza delle politiche. Secondo argomento, quello di assicurare la presenza nel Parlamento europeo dei leader nazionali allo scopo di rafforzare la visibilità e l'autorevolezza dell'istituzione europea.
Se questi due argomenti avevano qualche forza quando l'Europa era ancora un oggetto sconosciuto e i suoi meccanismi di dialogo tra le istituzioni europee e nazionali ancora rudimentali, oggi essi suonano pretestuosi e si rivelano più utili a occultare interessi personali o di partito che a far funzionare le istituzioni.
Ne sono prova il poco impegno che molti leaders nazionali dedicano ai loro doveri europei, le scandalose assenze nei lavori parlamentari, l'uso tutto nazionale del mandato europeo, che si tratti della presidenza di turno dell'Unione o delle alleanze in seno ai gruppi politici europei. Queste derive "provinciali"frenano, anziché accelerare, la crescita dell'Europa e non aiutano certo i cittadini di questo Paese a sentire l'Unione come la loro casa comune dalla quale pur dipende tanta parte della loro vita.

fine del "doppio mandato": attenti al trucco

Finalmente oggi, dopo tanti anni, sembra che anche i politici nostrani si vadano rassegnando a mettere fine al "doppio mandato". Era ora, anche se subito si insinua un sospetto: da dove viene questa tardiva saggezza? Solo da un'onesta constatazione delle conseguenze negative ampiamente riscontrate, dall'imbarazzo suscitato dalle liste degli assenteisti - che sono pubbliche e andrebbero esaminate con attenzione prima di recarsi alle urne - o dall'apprezzabile coraggio di chi corre il rischio democratico di un solo mandato senza tenersi in serbo una comoda poltrona di riserva se andasse male?
Difficile rispondere, come sempre quando si tratta di calcoli politici, talvolta anche nobili ma spesso discutibili. Quello che invece sembra profilarsi con chiarezza, a leggere le cronache di questi giorni, è la tentazione di un trucco fors'anche più subdolo del doppio mandato dichiarato e reale.
Si tratterebbe, sembra di capire, di rendere incompatibile il doppio mandato dopo l'esito della consultazione elettorale, attraverso il meccanismo della rinuncia a uno dei due mandati in caso di vittoria elettorale. E poiché la rinuncia - lo abbiamo capito fin d'ora - riguarderebbe il mandato europeo, il "trucco" viene alla luce: mi presento capolista alle elezioni europee, faccio da traino al mio partito e, se eletto, lascio il posto che conta di meno - quello europeo - e resto nell'arena nazionale, che ha alti indici di ascolto (almeno per qualcuno)e interessi più consistenti.
Sarebbe la storia triste dell'elettore "sedotto e abbandonato", che crede di dare un mandato a qualcuno e se lo vede portar via da un altro.
Se così fosse, la giovane democrazia europea diventerà presto vecchia senza essere diventata adulta.

EUROPEI POCO INFORMATI SULLA COSTITUZIONE

Cosa sanno i cittadini europei della futura Costituzione e delle riforme in discussione? La maggior parte non si considera bene informata e solo un quarto ritiene di conoscere la materia. Questo emerge da un sondaggio Eurobarometro effettuato lo scorso mese di gennaio, per il quale sono state intervistate circa 25.000 persone di età superiore ai 15 anni in tutti i 25 Stati membri dell'UE. In generale, risultano meglio informati gli uomini delle donne e le persone anziane rispetto ai più giovani (soprattutto nei Quindici). Un dato particolarmente interessante è che,in generale, questa mancanza di informazione si percepisce di più nei 15"vecchi" Stati membri che nei nuovi 10. Tra questi ultimi, infatti, si considera ben informato il 31% dei cittadini, percentuale che raggiunge il valore massimo in Slovenia (48%). In tutti i 25 Stati la maggior parte delle persone ha scelto soprattutto televisione e radio (record per l'Italia con l'87%), seguite dai giornali, come mezzo per ottenere informazioni sulla Costituzione; pochi hanno preferito incontri e dibattiti.
Benché una maggioranza di cittadini europei sia consapevole della creazione di un ministro degli Esteri europeo (63%), su tutte le altre questioni poste dal sondaggio emerge una scarsa conoscenza e molta confusione. Nei nuovi Stati membri, ad esempio,meno di un quarto dei cittadini sa che il presidente del Consiglio europeo non sarà eletto direttamente dal suffragio universale. Circa il 40% degli europei(43% nei Quindici e 38% nei Dieci) è a conoscenza del diritto dei cittadini di presentare una proposta alla Commissione raccogliendo un milione di firme, come previsto dalla Costituzione.
Per quanto concerne invece il gradimento per una futura Costituzione europea, una chiara maggioranza degli europei in tutti i 25 Stati è a favore (78%, con valore massimo del 92% in Italia), crede che sia necessaria per migliorare il funzionamento delle istituzioni europee (67%) e sostiene che il loro Paese debba favorire e non ostacolare questo processo. Altro dato interessante è quello relativo alle "due velocità", da cui emerge come il 60% dei cittadini nei 24 Stati non è contrario al fatto che alcuni Paesi muovano più celermente nel processo di integrazione europea senza aspettare gli altri, percentuale di favorevoli che mostra però una significativa differenza tra il 58% registrato nei Quindici e il 68% dei nuovi Stati membri.
Una forte maggioranza di cittadini è poi a favore della creazione di un ministro degli Esteri europeo(71%), esprimendo giudizio favorevole per una posizione europea comune in materia di politica estera; ciò dimostra l'esistenza di uno "spirito europeo"che porta i cittadini ad auspicare maggior unione politica tra gli Stati membri.
Fonte: http://europa.eu.int/comm/public_opinion/flash/fl159_fut_const.pdf


proposte della Commissione sulla coesione economica e sociale

L'Unione europea dovrà prossimamente affrontare molte sfide: la nascita di nuove tecnologie, l'accelerazione dei mutamenti economici,l'immigrazione nelle nostre città di persone provenienti dall'esterno dell'Unione. Oltre a ciò, negli ultimi anni il nostro rendimento economico è vacillato. L'Europa deve pertanto affrontare la situazione. Occorre far partecipare tutte le regioni e la popolazione alla creazione di ricchezza". Con queste motivazioni, esposte dal commissario per la Politica regionale Michel Barnier, la Commissione europea ha presentato il 18 febbraio scorso la terza Relazione sulla coesione economica e sociale, che illustra la strategia dell'Ue per ridurre il divario economico tra i 15 attuali Stati membri e i 10 che faranno parte dell'Unione dal 1° maggio prossimo. La Relazione contiene proposte per il periodo 2007-2013 e le raccomandazioni concrete sul modo in cui dovrebbero essere usate le risorse (il bilancio dell'UE prevede 336 miliardi di euro per la politica di coesione), al fine di ridurre il divario economico tra gli Stati membri e le regioni per raggiungere il risultato di crescita economica e sviluppo sostenibile. L'obiettivo è dunque quello di "ridurre il divario per ottenere una crescita più rapida" sostiene la Commissione, perché "la crescita e la coesione sono due facce della stessa medaglia".
obiettivo dell'Ue fin dal 1996
La solidarietà fra i popoli dell'Unione europea, i progressi economici e sociali e il rafforzamento della coesione fanno parte degli obiettivi globali della Comunità di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni eil ritardo delle regioni meno favorite, come risulta dal Trattato che istituisce le Comunità europee. Gli strumenti di solidarietà, i Fondi strutturali e il Fondo di coesione costituiscono circa un terzo del bilancio dell'UE (circa 36 miliardi di euro nel 2004). Le risorse vengono fornite mediante programmi di sviluppo pluriennali, gestiti congiuntamente dagli Stati membri, dalle regioni e dalla Commissione.
La prima relazione sulla coesione è stata pubblicata nel 1996 e ha gettato le basi per l'Agenda 2000, il quadro politico e finanziario dell'Ue per il periodo2000-2006. La seconda relazione, del 2001, ha avviato il dibattito sulla politica di coesione dopo l'allargamento, culminato nelle proposte contenute in questa terza Relazione.
responsabilità
agli Stati membri
"Aiutare le regioni più povere sarà la principale priorità della prossima generazione di programmi di aiuto europei - ha dichiarato Barnier - Sebbene gran parte delle regioni più povere si trovino nei nuovi Stati membri, dovremo comunque continuare ad aiutare le regioni dei Quindici laddove il processo di recupero è incompleto nonché molte altre aree urbane e industriali in declino o quelle che presentano svantaggi naturali persistenti, in cui continuano ad esistere gravi problemi economici e sociali".
Secondo l'analisi della Commissione, nonostante le disparità di reddito e occupazione nell'UE si siano ridotte nell'ultimo decennio permangono grandi deficit da recuperare tra i meno abbienti e il resto della popolazione e, proprio su questo, dovranno essere concentrati gli sforzi a lungo termine.
Saranno gli Stati membri, con le loro politiche, ad avere le maggiori responsabilità nel fornire servizi di base e complemento di reddito. La Relazione sottolinea infatti come la spesa pubblica negli Stati membri è in media del 47% del PIL,cifra di molto superiore al bilancio dell'Unione che è di poco più dell'1% del PIL dell'UE (di cui poco meno della metà destinato alla politica di coesione).M a, nonostante l'entità relativamente ridotta rispetto alle risorse pubbliche nazionali, la politica di coesione dell'UE svolge un ruolo essenziale nel tener conto delle disparità, in quanto si concentra sugli investimenti e sulle regioni meno sviluppate. La Commissione ricorda come i programmi europei abbiano contribuito direttamente a promuovere la convergenza regionale e l'occupazione. Per esempio, nel periodo 2000-2006 tali politiche aumentano di circa il 3% il capitale sociale in Spagna, fino al 9% in Grecia e Portogallo, del 7% nel Mezzogiorno italiano e del 4% nei Länder tedeschi orientali. Ne risulta una notevole riduzione del divario in settori chiave come i trasporti in cui, per esempio, la copertura della rete autostradale negli Stati membri più poveri dei Quindici ora supera leggermente quella del resto dell'Unione.
un duplice obiettivo
Tra le proposte prioritarie la Commissione individua quella di sostenere l'aumento della creazione di posti di lavoro negli Stati membri e nelle regioni meno sviluppati. Tale obiettivo riguarderà le regioni che hanno un PIL pro capite inferiore al 75% della media comunitaria e temporaneamente quelle in cui il PIL pro capite sarebbe stato inferiore al 75% della media comunitaria dell'UE a 15.
L'obiettivo chiave della politica di coesione sarà duplice. Attraverso programmi regionali,la politica di coesione aiuterà le regioni e le autorità regionali ad anticipare e promuovere i mutamenti economici nelle aree industriali, urbane e rurali potenziandone la competitività e l'attrattiva, tenendo conto delle disparità economiche, sociali e territoriali esistenti. In secondo luogo,attraverso programmi nazionali, la politica di coesione aiuterà la popolazione ad anticipare e ad adattarsi ai cambiamenti economici, conformemente alle priorità politiche della Strategia Europea per l'Occupazione (SEO), sostenendo politiche che si prefiggono la piena occupazione, il miglioramento della qualità e della produttività del lavoro e l'inclusione sociale. Secondo la commissaria europea per l'Occupazione e gli Affari sociali, Anna Diamantopoulou, "ciò consentirà di applicare la strategia per l'occupazione sul territorio, cosa essenziale se l'UE vuole mantenere l'aumento dell'occupazione, la qualità e la produttività del lavoro, la coesione sociale e le pari opportunità".
sviluppo equilibrato
del territorio
Utilizzando l'esperienza dell'iniziativa Interreg (che dal 1990 ha finanziato progetti di cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale per sostenere l'economia, le infrastrutture, l'occupazione e l'ambiente), la relazione raccomanda di proseguire l'attività per promuovere un'integrazione armoniosa ed equilibrata del territorio dell'Unione sostenendo la cooperazione a livello transfrontaliero e transnazionale. In linea di massima, la cooperazione transfrontaliera riguarderebbe tutte le regioni lungo i confini esterni e interni, sia terrestri che marittimi. L'obiettivo principale in quest'ottica è fornire soluzioni congiunte ai problemi comuni tra autorità vicine, come per esempio lo sviluppo urbano, rurale e costiero, lo sviluppo di relazioni economiche e la creazione di reti di piccole e medie imprese.
cosa verrà finanziato
I principali temi del cofinanziamento dei programmi nazionali e regionali riguarderanno: modernizzazione e diversificazione della struttura economica;estensione e miglioramento delle infrastrutture di base; protezione dell'ambiente;potenziamento della capacità amministrativa; miglioramento della qualità delle istituzioni del mercato del lavoro e dei sistemi di istruzione e formazione. Inoltre, gli Stati membri il cui prodotto nazionale lordo è inferiore al 90%della media comunitaria potranno beneficiare del Fondo di coesione, che continuerà a finanziare i programmi in materia di trasporto e ambiente.
Ogni anno le istituzioni europee esamineranno i progressi in materia di priorità strategiche e i risultati ottenuti, sulla base di una relazione della Commissione che sintetizzerà le relazioni di avanzamento degli Stati membri.
Per quanto riguarda le risorse finanziarie per il periodo 2007-2013, si propone di assegnare 336,3 miliardi di euro, pari allo 0,41% del Reddito Nazionale Lordo(RNL) dell'UE a sostegno della coesione (0,46% prima dei trasferimenti agli strumenti per lo sviluppo rurale e la pesca). In base alle stime attuali, circa il 78% di tale importo andrebbe alla priorità "convergenza", circa il 18% alla"competitività regionale e occupazione" e circa il 4% alla "coesione territoriale europea".

INFORMAZIONI:
http://europa.eu.int/comm/regional_policy/index_it.htm

RIUNIFICAZIONE: QUESTIONI APERTE E LIMITAZIONI

Proseguono i preparativi per la "riunificazione" europea, cioè per il cosiddetto allargamento dell'Ue che dal maggio prossimo conterà 10 nuovi Stati membri. L'ultimo ostacolo politico da superare è quello di Cipro, isola divisa nelle due parti greco-cipriota e turco-cipriota. Lo scorso 13 febbraio, a New York, l'ONU ha condotto in porto un accordo che prevede la riunificazione dell'isola nel quadro di un sistema federale. Sono dunque in corso negoziati per la costituzione di uno Stato federale con ampia autonomia per le due parti (su economia, istruzione, cultura), totale libertà di movimento all'interno del territorio dell'isola e una politica estera e di difesa esercitata dal governo federale. Per il buon esito del negoziato risulta particolarmente importante il ruolo della Turchia, che anche su questo si gioca l'ingresso nell'Ue: la condizione posta da Bruxelles prevede il ritiro dell'esercito turco dalla parte dell'isola invasa nel 1974 e a questo scopo si sono impegnate le autorità di Ankara. "Il 2004 sarà l'anno di Cipro e della Turchia" ha dichiarato il presidente della Commissione Romano Prodi durante la sua recente visita nella capitale turca (15 febbraio), ma la situazione della Turchia è ancora difficile. Al momento il Paese non soddisfa completamente le condizioni politiche stabilite dall'Ue: le riforme adottate contengono limiti significativi rispetto ai diritti fondamentali e alle libertà, mentre numerose istanze relative ai criteri politici devono ancora essere adeguatamente indirizzate. Una decisione sull'avvio o meno dei negoziati di adesione verrà presa entro il dicembre prossimo. Con Bulgaria e Romania, che entreranno nell'UE nel 2007, la Commissione ha proposto un percorso dettagliato di assistenza per completare la preparazione, che prevede riforme soprattutto nei campi giudiziario e amministrativo, mentre prosegue la cooperazione dell'Ue coni 5 Paesi dei Balcani occidentali al fine di creare le condizioni per la loro futura integrazione nell'UE.
Ma anche con i 10 Statiche tra poche settimane entreranno ufficialmente a far parte dell'Ue non tutto è definito. Resta aperta, ad esempio, la questione della libera circolazione dei lavoratori provenienti dai nuovi Stati membri. Una clausola inserita nei trattati di adesione permette infatti ai Quindici di imporre restrizioni all'ingresso sul loro territorio di lavoratori provenienti da 8 dei 10 nuovi Stati (per Cipro e Malta non esistono restrizioni). Nei primi due anni successivi all'adesione, l'accesso ai mercati del lavoro dei Quindici sarà determinato dalle politiche nazionali e da eventuali accordi bilaterali stipulati con i nuovi Stati membri. Trascorsi i primi 2 anni, ciascuno dei Quindici dovrà comunicare se intende continuare ad applicare le misure restrittive, e quindi richiedere il permesso di lavoro, per un periodo massimo di altri 3 anni. Queste misure dovrebbero decadere entro 5 anni dall'estensione dell'UE, ma in caso di "gravi perturbazioni del mercato del lavoro" i Quindici potranno chiedere un'ulteriore proroga di 2 anni. Finora, solo Irlanda e Gran Bretagna hanno espresso la volontà di non condizionare l'immigrazione di lavoratori dell'Est con il rilascio di permessi per lavoro, anche se il governo britannico ha già annunciato che per almeno due anni non verrà garantita loro l'assistenza pubblica. E' dunque molto probabile che per alcuni anni (in teoria sarebbe possibile fino al 2011) si avrà una popolazione di nuovi cittadini europei con diritti limitati, cosa che posticiperà bel oltre il maggio 2004 le divisioni tra Est e Ovest europeo.


bilancio europeo e coesione nell'Ue

La Commissione europea ha presentato lo scorso 10febbraio la comunicazione "Rendere l'Europa più prospera: l'agenda politica e il quadro finanziario dell'Unione europea allargata per il periodo 2007-2013",che prevede un aumento del bilancio europeo in prospettiva dell'allargamento dell'Ue e delle necessità di coesione economica e sociale (vedi pagine precedenti). Su questa posizione si è espressa favorevolmente la Confederazione europea dei sindacati (Ces), secondo cui il futuro quadro finanziario prospettato dalla Commissione concorda con la volontà politica della Ces di dotare l'Ue di un bilancio "ambizioso" in un'Europa a 25 Paesi, per realizzare gli obiettivi politici dell'Agenda di Lisbona e rinforzare la politica di coesione economica e sociale.
Sul bilancio dell'UE per il periodo 2007-2013 è in corso un dibattito tra Commissione europea e Consiglio, che dovrebbe chiudersi entro il 2005. Per aumentare gli investimenti dell'Ue in settori come la ricerca,l'istruzione, i trasporti, le infrastrutture e concedere maggiori contributi a regioni e zone depresse europee, la Commissione chiede di aumentare il tetto di spesa portandolo all'1,24% del Pil europeo (che equivale a circa 150 miliardi di euro annui). Alcuni Stati membri (Austria, Francia, Germania, Gran Bretagna,Paesi Bassi e Svezia) hanno invece presentato richiesta congiunta di ridurre la percentuale di spesa all'1% del Pil (circa 100 miliardi l'anno) e altri Stati(tra cui Finlandia, Irlanda, Italia e Slovenia) si stanno avvicinando a questa posizione. Attualmente gli Stati membri versano all'Ue già l'1,24% del Pil, mail livello di spesa è attestato sullo 0,98% del Pil e i fondi non utilizzati vengono restituiti ai singoli Paesi: in pratica, la richiesta di alcuni Stati membri è di mantenere i livelli di spesa attuali, mentre la Commissione chiede di poter utilizzare tutto il credito.
"Prendendo le distanze dalla chiamata di rigore lanciata in dicembre da 6 Paesi contribuenti -dichiara la Ces - la Commissione ha scelto delle prospettive finanziarie più ambiziose, sempre rispettando il limite fissato dai Trattati. Adottando previsioni di bilancio importanti, la Commissione manifesta la sua volontà di dotarsi di un bilancio all'altezza delle sue ambizioni". Per queste ragioni, i sindacati europei si rallegrano della decisione adottata dalla Commissione e si impegnano a sostenere gli orientamenti politici in favore di un'Europa prospera e solidale.
La questione del bilancio europeo è di fondamentale importanza soprattutto nell'ottica di un'Unione allargata a 25 Stati. La maggior parte dei nuovi Stati membri, infatti, si trova in situazioni economico-sociali più difficili di quelle dei Quindici e dovrebbe quindi usufruire di elevati contributi dall'Ue nei prossimi anni. Di conseguenza,coloro che tra i "vecchi" Stati membri hanno maggiormente usufruito dei fondi strutturali europei per le regioni più disagiate, come Grecia, Portogallo,Spagna e Italia, con la nuove esigenze derivanti dall'estensione dell'Ue vedranno ridurre i fondi a loro favore. Inoltre, la difficile situazione economica di molti dei Quindici non fa che accrescere gli interessi nazionali e diminuire la solidarietà verso i nuovi Stati.
Secondo la Ces, l'allargamento rappresenta "un'opportunità storica unica per unificare i differenti Paesi europei sulla base di valori fondamentali democratici". La questione centrale di questa sfida è però quella della solidarietà politica, economica e finanziaria,che implica delle scelte politiche coraggiose in materia di bilancio. Per questo, la Ces si era già pronunciata a favore di un aumento generale del bilancio dell'Ue, come garanzia della credibilità dell'Unione e al tempo stesso dell'allargamento e della politica di coesione europea.
Dunque, la Ces non può che "accogliere favorevolmente i grandi orientamenti del quadro finanziario 2007-2013, le cui prospettive riaffermano bene la loro fede nella politica di solidarietà regionale per l'attribuzione di aiuti comunitari, sia negli attuali che nei futuri Stati membri, e di competitività al servizio della crescita e dell'impiego".

INFORMAZIONI: www.etuc.org

CES: FERMARE LA SUPER VALUTAZIONE DELL'EURO

Utilizzare l'euro per proteggere l'Europa contro le turbolenze del mercato dei cambi. Questo l'appello rivolto, all'inizio di febbraio, dalla Ces alla Banca centrale europea e ai ministri economico-finanziari dell'Ue e del G7.
Un recente Rapporto dell'Istituto sindacale europeo (Ise) mostra infatti come la forte valutazione dell'euro sia allarmante. Un euro sopravvalutato riduce la crescita in Europa e le riduzioni dei tassi di interesse finora decisi dalla Bce non sono sufficienti per compensarlo e fare in modo che sia il "motore" della ripresa europea.
L'insuccesso della ripresa nel 2003 è legato direttamente a queste perturbazioni sui mercati dei cambi, che hanno indotto fino a quasi un punto percentuale le perdite di crescita nel corso dell'anno. Per il 2004, il Rapporto dell'Ise avverte che la valutazione supplementare effettuata nel dicembre scorso prevede un calo del tasso di crescita dall'1,8% all'1,3%. "Eliminando la possibilità di attacchi monetari speculativi e creando una grande zona a moneta unica, l'euro ha resol'Europa "padrona" del proprio destino economico" sostiene la Ces che, per queste ragioni, chiede alle autorità economico-finanziarie dell'Ue di guidare questa fase e utilizzare il regime della moneta unica per far fronte alle pressioni dei mercati finanziari internazionali. I sindacati europei sostengono che, avvicinando lo scarto dei tassi di interesse tra gli Usa (attualmente all'1%) e la "zona euro" (2%), si rilancerebbe la domanda interna e si ridurrebbe il rischio di un nuovo rafforzamento della moneta europea,scoraggiando i flussi di capitali speculativi. Banca centrale europea,Commissione e ministri europei dovranno intervenire direttamente sul mercato dei cambi per stabilizzare il tasso di cambio dell'euro, dichiara la Ces,mentre la Bce non dovrebbe essere soggetta a costrizioni tecniche sulla stampa di moneta e sulle riserve di valute straniere.


la Ces ripropone i 10 test sociali

Nel gennaio scorso, una delegazione della Confederazione europea dei sindacati(Ces) costituita dal presidente Candido Mendez, dal segretario generale John Monks e da David Begg, segretario generale del Congresso dei sindacati irlandesi (Ictu), ha incontrato il primo ministro irlandese per presentargli le posizioni dei sindacati europei sulle principali tematiche europee.
La Ces ha colto l'occasione per sottoporre alla presidenza di turno dell'Ue un piano di 10 punti, che contiene le richieste dei sindacati europei in materia di politiche sociali. Il piano riprende in buona parte le richieste già presentate nel luglio 2003 alla presidenza italiana e non realizzate (vedi tabella). E' stato inoltre chiesto alla presidenza irlandese di dare un serio supporto all'adozione di una nuova Costituzione con una dimensione sociale forte e a porre la crescita economica al centro della propria agenda. "La presidenza irlandese ha iniziato bene i suoi lavori, riprendendo le principali tematiche europee dopo la cattiva annata che l'Ue ha conosciuto nel 2003 -ha dichiarato Monks - L'Irlanda deve oggi concentrarsi assolutamente su due priorità essenziali. Innanzitutto l'adozione, il più rapidamente possibile, diu na nuova Costituzione, che garantirà i diritti sociali e sarà in grado di rilanciare l'appoggio e l'entusiasmo dei lavoratori per il progetto europeo. Inoltre, deve affrontare l'andamento economico negativo, che colpisce la maggior parte dei Paesi europei, e guidare un movimento che favorisca un nuovo Patto di stabilità, orientato in primo luogo alla crescita o, almeno, aun'interpretazione più ampia del patto attuale".Secondo la Ces, l'Europa non può ridursi a un grande mercato e a una moneta unica, ma deve aiutare i lavoratori ad affrontare e ad adattarsi ai cambiamenti. Per questo, la nuova Costituzione dovrà sostenere i diritti dei lavoratori. L'Europa, sostengono i sindacati europei, non può continuare ad affidarsi a una crescita basata sulle esportazioni verso gli Stati Uniti, anche perché l'abbassamento del dollaro rende questa prospettiva poco probabile. L'obbiettivo dovrebbe essere quindi quello di avere un periodo di crescita "made in Europe".
Secondo la Ces, la presidenza dell'Ue rappresenta un periodo che consente di valutare i progressi della politica e della legislazione sociale europea. Certo, la presidenza non può prendere decisioni da sola e necessita della cooperazione di Commissione, Parlamento e Consiglio,ma riveste comunque un ruolo particolare nelle modalità di dirigere le discussioni, stabilire le priorità, preparare il lavoro pratico e trattare argomenti specifici con una certa prospettiva.
Pur non formulando valutazioni politiche complessive sulla presidenza italiana, conclusasi alla fine del 2003, i sindacati europei ritengono che essa abbia fallito nella realizzazione della maggior parte delle proprie ambizioni, verdetto che la Ces formula sulla base dei dieci test sociali presentati nel proprio Memorandum dello scorso luglio.
La presidenza italiana non è stata tuttavia l'unica colpevole, sostengono i sindacati. In numerosi casi, l'assenza di progressi era principalmente imputabile alla Commissione europea (revisione della direttiva sui Comitati aziendali europei, offerte pubbliche di acquisto, appalti pubblici, servizi d'interesse generale, ecc.). Su altre questioni sono stati invece alcuni governi del Consiglio a rimandare l'adozione di una mediazione (lavoratori temporanei), oppure a insistere su compromessi inadeguati per la dimensione sociale dell'Unione (offerte pubbliche di acquisto e appalti pubblici).
In materia di direttive sul controllo delle fusioni e delle offerte pubbliche di acquisto, poi, è stato il Parlamento europeo a mostrarsi reticente nel discutere in modo appropriato dei diritti d'informazione e consultazione dei lavoratori.
La mancanza di potere di negoziazione, di effettiva pressione e di forte investimento politico da parte della presidenza italiana ha poi fatto il resto,portando all'interruzione e all'insuccesso della Conferenza Intergovernativa.

INFORMAZIONI: www.etuc.org tel.+322 (0) 2240430

DIECI TEST SOCIALI DELLA CES PRESENTATI ALLA PRESIDENZA ITALIANA DELL'UE NEL 2003 E ORA RIPROPOSTI A QUELLA IRLANDESE I VALUTAZIONE SUI RISULTATI OTTENUTI DALLA PRESIDENZA ITALIANA NEL SECONDO SEMESTRE 2003

1. Convenzione/CIG: garantire un Trattato costituzionale democratico, moderno e sociale per l'Europa. 

Negativo

2. Strategia di Lisbona: promuovere un'insieme di misure d'urgenza, conformi agli obbiettivi di Lisbona, per fare fronte ai problemi immediati dell'Europa e perseguire l'impegno a favore del modello "più quantità e qualità dell'occupazione", fondato su politiche economiche, dell'occupazione e della coesione sociale. 

Parzialmente positivo

3. Immigrazione: sviluppare una politica europea comune d'immigrazione e di diritto d'asilo per realizzare l'integrazione e gestire i flussi migratori. 

Risultato parziale

4. Revisione della direttiva CAE: recuperare il ritardo di 3 anni nella revisione legislativa. 

Negativo

5. Appalti pubblici: includere una clausola di "standard lavorativi equi". 

Risultato parziale

6. Controllo delle fusioni: integrare considerazioni su occupazione e partecipazione. 

Negativo

7. Offerte pubbliche di acquisto: garantire misure d'informazione, di consultazione e difensive. 

Negativo

8. Lavoro temporaneo: adottare la direttiva con un periodo transitorio limitato. 

Negativo

9. Servizi d'interesse generale: stabilire una base legale nei trattati, avviare una procedura per una direttiva quadro o imporre una moratoria legislativa sulla liberalizzazione. 

Negativo

10. Responsabilità sociale delle imprese (RSI): sviluppare il dibattito nel quadro del modello sociale europeo e riaffermare che la RSI non debba costituire un'alternativa al dialogo sociale e alla negoziazione collettiva. 

Risultato parziale


Oil: cambiare la globalizzazione

Il messaggio lanciato dal Rapporto "A fair globalization. Creating opportunities for all", redatto dalla Commissione mondiale sulla dimensione sociale della globalizzazione dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e presentato nelle settimane scorse è chiaro: "La globalizzazione può e deve essere cambiata attraverso un percorso di equità che non escluda nessuno". L'Oil richiama tutti gli attori, governi, mondo politico, mondo degli affari e del lavoro e società civile, ad assumersi le proprie responsabilità per il rispetto dei valori e dei principi universalmente condivisi e l'impegno a raggiungere l'obbiettivo generale di una globalizzazione più equa. "La scelta è molto chiara - sostengono irresponsabili del Rapporto - È possibile correggere la mancanza di governo globale nel mondo oggi, garantire la responsabilità e adottare delle politiche coerenti atte a spianare la via a una globalizzazione equa e giusta, sia all'interno di ogni Paese che tra Paesi diversi; se invece non agissimo subito,correremo il rischio di scivolare in una spirale di insicurezza, di turbolenze politiche, di conflitti e di guerre".

disparità inaccettabili e insostenibili

Secondo l'Oil, la globalizzazione ha un'enorme potenziale per quanto riguarda società ed economie aperte e uno scambio più libero dei beni, delle idee e delle conoscenze, ma l'attuale funzionamento dell'economia globale presenta disparità molto radicate e persistenti, "inaccettabili da un punto di vista etico e politicamente insostenibili". Infatti, rileva il Rapporto, i vantaggi portati dalla globalizzazione sono fuori portata per molti, rimane diffusa la corruzione, cresce la minaccia del terrorismo, il futuro dei mercati aperti viene sempre più messo a repentaglio. Il governo globale è dunque in crisi e, sostiene l'Oil, "siamo giunti ad un punto critico: diventa urgente ripensare le nostre politiche attuali e le nostre istituzioni".
Il Rapporto, dichiarano i responsabili dell'Oil, non offre soluzioni miracolose o semplicistiche, anche perché non esistono. È invece un tentativo per cercare di interrompere l'attuale situazione di stallo e far luce sui bisogni e sulle aspirazioni delle persone, nonché tracciare i percorsi da seguire per canalizzare meglio i potenziali della globalizzazione stessa.

regole più eque e maggiore occupazione

Viene dunque indicata una serie di misure coordinate per migliorare governo e responsabilità ai livelli nazionale e internazionale. Tali misure includono regole più eque in materia di commercio, investimento, finanzae migrazione internazionale, che prendano in considerazione gli interessi, i diritti e le responsabilità di tutti; misure mirate alla promozione delle norme fondamentali del lavoro e al mantenimento di un livello minimo di protezione sociale nell'economia globale; nuovi sforzi per una mobilitazione delle risorse internazionali al fine di aumentare le capacità e raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo del millennio.
Secondo l'Oil, una globalizzazione equa dipende anche da un migliore governo in ogni Paese, così il Rapporto indica quali siano le priorità delle politiche nazionali, locali e regionali che potrebbero favorire la partecipazione attiva delle persone nelle opportunità offerte dalla globalizzazione. "Un lavoro dignitoso per tutti dovrebbe rappresentare un obiettivo globale ed essere raggiunto attraverso politiche nazionali ed internazionali complementari", dichiara l'Organizzazione internazionale secondo cui orientare il bisogno verso un'accelerazione della creazione di occupazione in tutti i Paesi aiuterebbe a ridurre ovunque le tensioni sociali e i conflitti economici.

politiche coerenti e più integrate

L'Oil raccomanda che vengano promosse dalle organizzazioni internazionali competenti "iniziative per la coerenza delle politiche" al fine di sviluppare politiche più equilibrate in sinergia tra di loro. L'obiettivo dovrebbe essere quello di sviluppare,progressivamente, proposte di politica integrata su argomenti specifici che equilibrino interessi economici, sociali e ambientali. Una delle prime iniziative dovrebbe riguardare la questione della crescita globale,dell'investimento e della creazione di occupazione e dovrebbe coinvolgere organismi competenti delle Nazioni Unite, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l'Organizzazione mondiale del Commercio e l'Organizzazione internazionale del lavoro. Altre priorità sono la parità tra uomini e donne e la responsabilizzazione delle donne, l'educazione, la sanità, la sicurezza alimentare, l'habitat. "Le risorse e i mezzi per raggiungere lo scopo sono a portata di mano - dichiarano gli autori del Rapporto - Per quanto ambiziose, le nostre proposte sono realizzabili. Siamo certi che un mondo migliore è possibile".

un nuovo "contratto sociale" a livello locale e globale

Per mirare a una globalizzazione più equa, inoltre,secondo l'Oil è necessario che i Paesi di maggiore importanza decisionale,all'interno degli organismi internazionali, si assumano le proprie responsabilità al fine di prendere in considerazione tutti gli interessi,rispettino i propri impegni internazionali e la libertà degli altri Paesi di formulare le politiche interne. Infatti, "solo se i principi di base della democrazia, dell'equità sociale, dei diritti dell'uomo e delle norme di legge sono rispettati all'interno dei Paesi, saranno ripartiti ampiamente i benefici del globalizzazione e controllati gli effetti contrari. In pari modo, le istituzioni sane sono tenute a promuovere opportunità e azione in un'economia di mercato efficiente".
Il Rapporto sollecita l'assorbimento della vasta economia informale in quella formale, attraverso un processo che stabilisca e rispetti i diritti di proprietà e i diritti dei lavoratori. Inoltre, devono essere realizzate politiche locali fondate sulla difesa dei diritti di espressione, cultura e identità, e sviluppate le capacità produttive.

altre raccomandazioni

Il Rapporto indica altre raccomandazioni:

INFORMAZIONI: www.ilo.org/wcsdg

 

RECORD DI DISOCCUPATI NEL MONDO

Il numero dei disoccupati nel mondo ha quasi raggiunto i 186 milioni nel 2003, nonostante una ripresa della crescita economica dopo due anni di calo. La stima è contenuta nel "Global employment trends 2004 report", Rapporto sulle tendenze dell'occupazione nel mondo pubblicato ogni anno dall'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e presentato il 22 gennaio scorso a Ginevra. La ripresa economica iniziata nella seconda metà del 2003 sembra mitigare il deterioramento della situazione occupazionale mondiale, sostiene l'Oil secondo cui gli effetti positivi sul mercato del lavoro potrebbero protrarsi nel 2004.Ma, ha dichiarato il direttore generale dell'Oil Juan Somavia, "è ancora troppo presto per dire che il peggio è alle nostre spalle" perché "se la ripresa dovesse rallentare e di conseguenza la speranza di veder crescere il numero di posti di lavoro qualitativamente migliori dovesse venir meno, molti Paesi non riuscirebbero a dimezzare la povertà entro il 2015", obiettivo fissato dall'Onu per il millennio. La tendenza può però essere invertita se i responsabili della politica e dell'economia "cominciano a considerare politiche per il rilancio dell'occupazione allo stesso livello delle politiche macroeconomiche", sostiene Somavia.

i dati principali

  • Il numero delle persone senza lavoro e in ricerca di un lavoro ha raggiunto i 185,9 milioni nel2003, ovvero il 6,2% della forza lavoro mondiale, segnando un picco mai registrato dall'Oil in precedenza. L'aumento rispetto al 2002 (185,4 milioni) è tuttavia marginale.

  • Fra i disoccupati nel mondo, si contano 108,1 milioni di uomini, con un aumento di 600.000 unità rispetto al 2002. Il numero delle donne disoccupate segna invece un lieve calo,da 77,9 milioni nel 2002 a 77,8 milioni nel 2003.

  • Più duramente colpiti sono gli 88,2 milioni di giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni,con uno schiacciante tasso di disoccupazione pari al 14,4%.

  • In aumento nei Paesi con bassa crescita del Pil il fenomeno della cosiddetta "economia informale" nella quale sono coinvolte le persone senza posto di lavoro fisso. Fermo nel 2003 anche il numero dei "lavoratori poveri" - ovvero le persone che vivono con l'equivalente di un dollaro al giorno o meno - stimati in 550milioni.

le sfide da affrontare

"La sfida principale è di assorbire i 514 milioni di nuovi arrivi sul mercato del lavoro mondiale e ridurre il numero dei lavoratori poveri entro il 2015" sostiene l'Oil che individuà le priorità da fronteggiare:

  • Adozione di politiche a favore dei poveri. Di pari passo con l'aumento della disoccupazione e della sottoccupazione, la povertà impedisce la crescita dell'occupazione. Occorre attuare politiche che generino opportunità di lavoro dignitoso,produttivo e remunerativo in condizioni di libertà, di sicurezza e di dignità umana.

  • Una crescita economica senza creazione di posti di lavoro costituisce una minaccia per l'avvenire dell'economia stessa. Il protrarsi di alti tassi di disoccupazione provoca uno spreco di capitale umano, mentre la creazione di lavoro dignitoso implica la diminuzione della povertà e costituisce il presupposto essenziale alla crescita futura.

  • Ridurre la disoccupazione giovanile, che potrebbe avere un impatto devastante sulle prospettive occupazionali a lungo termine.

  • Incrementare l'aiuto internazionale mirato a migliorare l'accesso ai mercati dei Paesi sviluppati e a ridurre il debito estero nonché il servizio del debito pubblico,e al contempo rendere disponibili risorse per finanziare programmi di riforma mirati al miglioramento dell'amministrazione, alla creazione di posti di lavoro e alla riduzione della povertà.

INFORMAZIONI: il testo integrale è disponibile all'indirizzo web: www.ilo.org/public/english/employment/strat/global.htm


eliminare il lavoro minorile conviene

L'eliminazione del lavoro minorile nel mondo potrebbe apportare benefici economici pari a 5100 miliardi di dollari, una cifra quasi sette volte superiore ai costi stimati per raggiungere questo obiettivo. Si tratta di un valore particolarmente importante per i Paesi in via di sviluppo e in transizione, dove si trova il maggior numero di bambini costretti a lavorare. Questo il risultato di un Rapporto dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), curato dal Programma per l'eliminazione del lavoro minorile(Ipec), reso noto all'inizio di febbraio. Lo studio, intitolato "Investing inevery child. An economic study of the costs and benefits of eliminating child labour", rappresenta la prima analisi integrata dei costi economici e dei benefici dell'eliminazione del lavoro minorile su scala mondiale. L'analisi comparata di costi e benefici non ha tanto lo scopo di giustificare la necessità di eliminare il lavoro minorile - obiettivo già perseguito dalle convenzioni dell'Oil n. 138 e 182 - bensì di capire meglio le conseguenze economiche di un impegno internazionale in questo senso.
Secondo l'Oil, il lavoro minorile coinvolge un minore su 6 nel mondo, circa 246 milioni di bambini, tra cui ben 179 milioni esposti alle forme peggiori di lavoro che mettono a repentaglio il loro benessere fisico, mentale o morale. Questa grave piaga mondiale potrebbe però essere eliminata entro il 2020 se venissero realizzati programmi di educazione adeguati, per un costo complessivo stimato intorno ai 760 miliardi di dollari.
"Non c'è buona politica sociale che non si dimostri anche una buona politica economica- sostiene Juan Somavia, direttore generale dell'Oil - L'eliminazione del lavoro minorile si concretizzerebbe in un enorme ritorno d'investimento, per non parlare dell'impatto inestimabile sulla vita dei bambini e delle loro famiglie".
Lo studio applica un modello per analizzare le economie in transizione o in via di sviluppo e mostra come i benefici globali superino i costi in un rapporto di6,7 per 1. A livello mondiale, i benefici economici netti del programma da avviare ammonterebbero al 22,2% dell'aggregato dei redditi nazionali lordi annuali. Tutte le regioni mondiali trarrebbero benefici dall'eliminazione del lavoro minorile e, per alcune di esse, gli effetti sarebbero particolarmente positivi. In Africa del Nord e nel Medio Oriente, ad esempio, il rapporto benefici/costi sarebbe ancora più elevato (8,4 per 1), mentre nell'Africa subsahariana il rapporto sarebbe minore (5,2 per 1). In Asia, il rapporto potrebbe essere di 7,2 per 1, nei Paesi in transizione di 5,9 per 1 e in America Latina del 5,3 per 1.

un investimento vantaggioso

Lo studio evidenzia come l'eliminazione del lavoro minorile rappresenterebbe un "investimento generazionale", cioè l'impegno e i risultati che si potrebbero ottenere riguarderebbero i bambini di oggi ma anche quelli di domani. Nei primi anni del processo, i costi sarebbero sicuramente superiori ai benefici. Tuttavia, i flussi economici netti tornerebbero a essere fortemente positivi una volta consolidati gli effetti del miglioramento dell'educazione e della sanità. Verso il 2020 i costi dovrebbero essere nulli e il beneficio annuo ammonterebbe a circa 60 miliardi di dollari.
Rispetto ad altri costi sociali, il costo medio annuale dell'eliminazione del lavoro minorile sarebbe di gran lunga inferiore al servizio del debito o alla spesa militare. Ad esempio, il costo medio annuo di95 miliardi di dollari sarebbe pari al 20% della spesa militare attuale complessiva dei Paesi in sviluppo o in transizione, oppure al 9,5% dei 1000miliardi di dollari del servizio del debito dei Paesi in via di sviluppo.
La spesa viene definita dallo studio dell'Oil come un "investimento vantaggioso", poiché ogni anno di scuola fino ai 14 anni corrisponderebbe a un guadagno supplementare dell'11% annuo sui futuri stipendi, portando il beneficio globale ad oltre 5000miliardi. Per quanto concerne i costi, invece, il supplemento di educazione rappresenterebbe circa i due terzi di quelli complessivi.

prioritaria l'istruzione

La capacità di trarre benefici dall'estensione dell'educazione, sostiene l'Oil,dipende dalla capacità dei Paesi di creare posti di lavoro per stimolare la crescita economica. Tuttavia, lo studio mostra che anche nell'ipotesi in cui gli effetti dell'educazione sui futuri stipendi venissero dimezzati, i benefici complessivi ammonterebbero a 2000 miliardi. Le famiglie considerate dallo studio dovrebbero fronteggiare un'altro costo importante. Infatti,l'eliminazione progressiva del lavoro minorile nei prossimi vent'anni priverebbe le famiglie del reddito prodotto attraverso il lavoro dei propri bambini. Il contributo economico di un bambino viene stimato intorno al 20%rispetto a quello di un adulto, ne deriva che il costo sopportato dalle famiglie ammonterebbe a 246,8 miliardi di dollari.
Per tener conto di questa dimensione, lo studio prevede un sostegno finanziario alle famiglie che mandano i figli a scuola. Prendendo spunto dalla Bolsa Escola, un programma sviluppato in Brasile, lo studio calcola quanto verrebbe a costare su vent'anni l'erogazione di una tale prestazione famigliare consistente nel versare ad ogni famiglia il 60-80% del beneficio ricavato dal lavoro di un bambino.

effetti positivi sulla sanità

L'eliminazione del lavoro minorile avrebbe effetti positivi anche sul settore sanitario. Complessivamente questi benefici vengono stimati dall'Oil in 28 miliardi di dollari: "Comparativamente, questa cifra non è molto alta. Tuttavia, la salute dei bambini costituisce un bene vitale, oltre ogni vantaggio quantificabile".
Il Rapporto analizza dati provenienti da Brasile, Senegal,Kenya, Tanzania, Ucraina, Pakistan, Nepal e Filippine. Lo studio contiene inoltre, una sezione dedicata a un programma avviato 10 anni fa dall'Oil e dalla Banca mondiale per sostenere le famiglie di 24 altri Paesi. Per quanto riguarda il resto del mondo, le stime sono state estrapolate a partire dai dati demografici, economici e dai tassi di scolarizzazione attualmente disponibili.
I primi programmi per l'eliminazione del lavoro minorile nascono nel 1992 grazie alla collaborazione di Ipec e del governo tedesco e coinvolgono 6 Paesi. Oggi,a dodici anni di distanza, l'Ipec lavora in 80 Paesi con l'aiuto di 30donatori.

INFORMAZIONI:il testo integrale dello studio è consultabile all'indirizzo web: www.ilo.org/public/english/standards/ipec/publ/download/2003_12_investingchild.pdf

Totale dei costi e beneficieconomici legati all'eliminazione del lavoro minorile (periodo 2000-2020)*

Regione Paesi in transizione Asia America Latina Africa subsahariana Africa del Nord e Medio Oriente Mondo

Totale costi

25,6

458,8

76,6

139,5

59,7

760,3

Educazione

8,5

299,1

38,7

107,4

39,6

493,4

Trasferimenti

0,7

6,3

1,2

1,5

1,1

10,7

Interventi

0,4

2,4

5,8

0,6

0,2

9,4

Costi di sostituzione

16,0

151,0

30,9

30,1

18,8

246,8

Totale benefici

149,8

3321,3

407,2

723,9

504,1

5106,3

Educazione

145,8

3307,2

403,4

721,8

500,2

5078,4

Sanità

4,0

14,0

3,8

2,1

3,9

28,0

Benefici economici netti

124,2
(5,1%)

2862,4
(27,0%)

330,6
(9,3%)

584,4
(54,0%)

444,4
(23,2%)

4346,1
(22,2%)

Costi del trasferimento

13,1

125,8

23,5

29,1

22,1

213,6

Benefici finanziari netti

111,1
(4,6%)

2736,6
(25,9%)

307,1
(8,7%)

555,4
(51,3%)

422,3
(22,0%)

4132,5
(21,1%)

*In miliardi di dollari in PPA (parità di potere d'acquisto). Tra parentesi, la percentuale del reddito nazionale lordo annuo aggregato.
Fonte: Ufficio internazionale del lavoro, 2004

 

DIRITTI SINDACALI VIOLATI NEL MONDO

Ogni anno nel mondo circa 200 sindacalisti sono assassinati a causa delle loro attività in difesa dei diritti dei lavoratori, circa 4000 sono messi in prigione, più di 1000subiscono attentati o vengono torturati, almeno 10.000 vengono licenziati o perdono il lavoro a causa delle loro legittime rivendicazioni sindacali. Questi dati sono ricavati da una media sulla situazione mondiale degli ultimi 10 anni effettuata dalla Confederazione internazionale dei sindacati liberi (Icftu oCisl internazionale), che nel dicembre 2003 ha presentato un Rapporto sulle violazioni dei diritti sindacali. Dallo studio dell'organizzazione, che associa231 Confederazioni sindacali di 150 Paesi e rappresenta circa 158 milioni di lavoratori, emerge come la libertà sindacale è continuamente violata e minacciata in tutto il mondo e la repressione si è intensificata negli ultimi anni, in conseguenza dell'azione di denuncia che i sindacati hanno attuato sugli effetti perversi della globalizzazione economica in corso.
Particolarmente grave è la situazione della Colombia, il Paese più pericoloso del mondo per esercitare i diritti sindacali: 184 sindacalisti sono stati assassinati nel2002 e almeno 59 nel 2003, diverse centinaia di dirigenti e militanti sindacali sono stati arrestati o sfollati o costretti in esilio per salvare la propria vita. Vittime dei gruppi paramilitari, della guerriglia e di bande in connivenza oscura con i servizi ufficiali del governo, oltre 2500 sindacalisti sono stati assassinati negli ultimi dodici anni: "Una tale spietata repressione selettiva verso un gruppo specifico di persone (in questo caso i membri dei sindacati) va classificata tra i "crimini contro l'umanità" - denuncia l'Icftu- E' una situazione senza precedenti, davanti alla quale la comunità internazionale e i governi sono chiamati a prendere una forte posizione".
Anche in altri Paesi i regimi non democratici continuano a reprimere la legittima attività sindacale. In Cina, in un contesto di gravi tensioni dovute agli enormi cambiamenti del panorama economico e sociale, i lavoratori non possono organizzare liberamente attività sindacali. In Bielorussia e a Cuba sono stati messi in carcere, tra i dissidenti del regime, anche sindacalisti che cercavano di organizzare  sindacati autonomi e indipendenti. Forti repressioni si sono verificate in Venezuela, con licenziamenti in massa tra i circa 18.000 lavoratori del settore petrolifero in sciopero e gravi ripercussioni sulle famiglie. Situazioni difficili per l'esercizio dei diritti sindacali si sono registrate anche negli Stati del Golfo Persico, in Zimbabwe, in Corea del Sud, dove sono stati arrestati numerosi dirigenti sindacali, e Corea del Nord, dove non è permessa alcuna attività sindacale indipendente. Continua la tragedia della Birmania,dove la giunta militare al potere impone sistematicamente il lavoro forzato,centinaia di arresti vengono effettuati tra gli studenti, i politici, i militanti dell'opposizione e i sindacalisti. L'assenza di leggi internazionali,o degli stessi meccanismi che permettano il rispetto delle Convenzioni fondamentali dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), sta causando nel mondo la perdita dei diritti essenziali per milioni di lavoratori in agricoltura o nelle cosiddette "zone franche", dove le vittime delle violazioni sono soprattutto le donne.
E tutto ciò avviene a oltre 50 anni dall'adozione della Convenzione n. 87 sulla libertà sindacale e sulla tutela del diritto di associazione sindacale da parte dell'Oil e della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che inseriva i diritti sindacali tra i diritti umani fondamentali.
INFORMAZIONI: www.icftu.org


considerazioni sul Forum sociale mondiale di Bombay
di Susanna Camusso e Rita Pavan*

Ad oltre un mese dalla partecipazione al Forum sociale mondiale (Fsm) di Bombay, e in prossimità della mobilitazione mondiale per la pace del20 marzo lanciata proprio al Social Forum dalle associazioni pacifiste americane, vogliamo fare alcune riflessioni. Questo lasso di tempo trascorso consente, forse, un maggiore distacco emotivo da un evento che è andato oltre le aspettative di chi, dopo Porto Alegre, poteva pensare che tutto fosse già stato visto.
Molto si è già detto e scritto, durante quei giorni e dopo, negli articoli di stampa ma soprattutto nelle riunioni che, al rientro da Bombay, sono state fatte da molte realtà sociali del nostro Paese.

alcune domande frequenti

Ci interessa però focalizzare l'attenzione su alcune questioni poste da molti che, assenti fisicamente a Bombay ma sensibili alla problematica, erano interessati a capire meglio.
Elenchiamo quindi alcune delle domande emerse:
o Ci sono state differenze rispetto alle precedenti edizioni del Fsm svoltesi a Porto Alegre o si è semplicemente riprodotto un evento, con conseguenti rischi di ritualità?
o Quali passi in avanti nelle analisi e nelle proposte?
o Eventi come questi servono solo a denunciare un fenomeno o potranno incidere davvero sui processi di globalizzazione senza regole? In altri termini, si può parlare di un movimento più "consapevole" e capace di proposta compiuta?
o Che ruolo reale ha avuto e potrà avere il sindacato internazionale all'interno di questo movimento?
Senza pretese di completezza, azzardiamo alcune considerazioni.

donne protagoniste

La differenza principale, ma su questo molto si è già detto, è che la scelta di Bombay ha messo in luce come gli appuntamenti precedenti fossero, in fondo, una "diversa faccia della stessa medaglia". Ha consentito di toccare con mano, molto più che a Porto Alegre situata in una zona tra le più"ricche" del Brasile (per non parlare dei Forum europei, ultimo quello di Parigi), cosa significa davvero miseria, sfruttamento, globalizzazione senza regole. Accanto a temi tradizionali, sono stati affrontati temi nuovi quali il"castismo" e il "comunalismo" - termini sconosciuti in altre occasioni analoghe- vale a dire le discriminazioni e l'emarginazione sociale derivanti dall'appartenenza di casta o di comunità etnica. Anche in relazione a ciò, e più che in altre occasioni, si è assistito ad un protagonismo delle donne,evidenziatosi in molte forme: presenza nei dibattiti come relatrici, quindi un maggiore punto di vista femminile; organizzazioni di molti dibattiti specifici(es. tratta e prostituzione); fortissima presenza di movimenti di donne sulle problematiche più disparate (un caso dirompente, fra i molti, l'organizzazione delle donne raccoglitrici di immondizie).

CAMBOGIA: APPELLO PER I DIRITTI SINDACALI

Il 22 gennaio scorso, nella capitale della Cambogia Phnom Penh, è stato ucciso a colpi d'armada fuoco Chea Vichea, 36 anni, leader del Sindacato libero dei lavoratori del Regno di Cambogia (Ftuwkc). Vichea era stato fra i fondatori del partito di opposizione di Sam Rainsy, che aveva lasciato per dedicarsi completamente all'impegno sindacale in difesa dei lavoratori dell'industria dell'abbigliamento, pur continuando a mantenere stretti legami col partito. La morte di Vichea fa seguito a quella di altri tre membri dell'opposizione,assassinati nelle prime settimane di gennaio. Al suo funerale hanno partecipato oltre 10.000 persone, con una forte la presenza delle operaie tessili (le condizioni di vita e di lavoro dei 200.000 occupati del settore tessile, per il90% donne, sono molto dure). La Cisl Internazionale ha presentato una denuncia all'Organizzazione internazionale del lavoro: Vichea aveva ricevuto numerose minacce di morte ed era riuscito in un'occasione a identificarne gli autori,malgrado ciò non gli è stata concessa alcuna protezione.
Nell'aprile2003 Vichea era stato licenziato insieme al segretario generale e a 30 iscritti al Ftuwkc per aver svolto attività sindacale all'interno della fabbrica di abbigliamento Insm nella provincia di Phnom Penh. Solo in un caso era riuscito a ottenere giustizia, nel settembre 2003, facendo condannare il capo del servizio di sicurezza che l'aveva aggredito mentre volantinava davanti a una fabbrica per invitare i lavoratori a partecipare alla manifestazione del primo maggio. Poco dopo la sua morte, altri iscritti al suo sindacato sono stati fatti oggetto di minacce, mentre restano forti dubbi sugli arresti effettuati di persone sospettate dell'assassinio di Vichea.
Il sindacato cambogiano Ftuwkc rivolge un appello alla comunità internazionale affinché il governo di Hun Sen riceva forti pressioni che lo inducano ad avviare un'indagine seria e imparziale che porti all'arresto dei veri assassini e dei mandanti dell'omicidio. Si può scrivere o inviare un fax (ma il numero non sempre funziona) a: Mr. Hun Sen, Prime Minister Kingdom of Cambodia, Phnom Penh, fax:0085-23-88-06-24.

movimenti indiani e asiatici

Aldilà dei commenti un po' folcloristici con cui alcuni media hanno dipinto l'enorme partecipazione dei movimenti indiani, erano oltre 200 le associazioni rappresentate nel comitato organizzatore e che, storicamente divise per stati, caste, comunità,hanno avuto per la prima volta l'opportunità di rendersi visibili. Anche questo spiega il continuo"manifestare" di movimenti, prevalentemente indiani e asiatici, nel corso dei1600 "eventi" che hanno caratterizzato i sei giorni del Forum. C'è stata meno partecipazione "locale" ai dibattiti di carattere generale, per fare un paragone con Porto Alegre, ma non dimentichiamo che oltre il 90% degli iscritti indiani al Forum non conosceva l'inglese, e le traduzione in lingua hindi era presente solo in alcuni grandi dibattiti.

il problema della "diseconomicità"

Sempre più, all'interno di eventi come quello di Bombay, si sentono analisi che evidenziano la "diseconomicità" di un mercato senza regole. Ad esempio Stiglitz, premio Nobel per l'economia, ha sostenuto che la politica deve tornare ad avere il primato sull'economia e sui presunti "tecnici" (Fmi, Banca Mondiale,ecc); in un contesto mondiale dinamico, occorre tenere insieme l'aspetto sociale con quello economico e politico. I tecnici, infatti, applicano le regole senza preoccuparsi degli effetti sociali devastanti, ma l'insicurezza crea instabilità e quindi crisi, in una spirale che non trova vie d'uscita.
La diseconomicità, peraltro, non riguarda solo il livello macroeconomico: un recente studio dell'Oil (si veda nelle pagine precedenti, ndr.), ad esempio, rivela che l'eliminazione del lavoro minorile nel mondo potrebbe apportare benefici economici pari a 5100 miliardi di dollari, cifra quasi sette volte superiore ai costi stimati per raggiungere questo obiettivo.

un clima di dialogo

Difficile, anzi inopportuno, emettere"verdetti" sulla "maturazione" del movimento. Certamente non sono mancati -anzi - toni radicali, analisi semplificatorie e proposte che potremmo liquidare come velleitarie. Ci permettiamo però due considerazioni. La prima è che in tutti i dibattiti seguiti non si è mai sentita una protesta nei confronti dei relatori, anche quando dicevano cose non popolari per un ambiente come quello(ad esempio rappresentanti di istituzioni internazionali): non è poco, se pensiamo ad altre situazioni dove risse verbali e fischi sono frequenti. La seconda attiene proprio al "clima" che si respirava nelle grandi assemblee,dove si sono affrontati i temi legati al ruolo delle grandi istituzioni internazionali. Non parliamo tanto del Fondo monetario internazionale (Fmi) o della Banca Mondiale (ci mancherebbe avessero avuto simpatizzanti proprio lì!). Pensiamo piuttosto al ruolo dell'Onu o dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil): non sono mancate forti critiche, ma negli interventi anche dal pubblico molte erano le voci che, in fondo, sostenevano come l'"abbattimento"delle istituzioni internazionali non possa certo migliorare l'attuale situazione.

qualche cambiamento per il futuro

Come nelle precedenti occasioni, non c'è stato un documento conclusivo, che certo sarebbe stato utile per lasciare una traccia concreta di analisi e prospettive. Ma in tutta onestà sarebbe stato impossibile fare sintesi di punti di vista, condizioni ed esigenze tanto diverse.
Va colto quindi con positività l'orientamento assunto dal Consiglio internazionale (l'organismo che guida l'organizzazione del Forum) di "biennalizzare" l'evento mondiale - per non sovrapporlo a quelli continentali e monotematici - e soprattutto di evitare il rischio di "Forum supermarket", dove tutti parlano di tutto. Si definiranno alcuni argomenti prioritari e si stabilirà un'agenda operativa comune, per rendere più utile un'opportunità oggi superiore alla possibilità di fruirne.

il ruolo del sindacato

Molte organizzazioni sindacali a livello nazionale e internazionale (tra le tante, la Federazione mondiale dell'edilizia), stanno giocando un nuovo ruolo: aumenta la consapevolezza che i temi della globalizzazione cambiano anche la tradizionale azione sindacale. A Bombay, più che in altre occasioni analoghe, i temi del lavoro e del sindacalismo mondiale sono stati affrontati in vari dibattiti: anche grazie, va detto, al ruolo giocato dall'Oil. La manifestazione mondiale sindacale ha reso visibile ciò che in altre situazioni era rimasto relegato ai soli partecipanti ai dibattiti. Inoltre, la Cisl Internazionale ha chiaramente fatto la scelta di esserci e di essere "parte" di questo movimento, nonostante il rapporto non sempre sia facile. Esistono problemi di differenze strategiche e, perché no, anche di rappresentanza.
Ma, inutile nasconderselo, siamo lontani da un ruolo vero di protagonismo della struttura sindacale mondiale all'interno di questo movimento composito. A ben pensare, il sindacato internazionale, con i suoi 151 milioni di iscritti, 233 sindacati affiliati in rappresentanza di 152Paesi, è l'organizzazione sociale "globale" più forte del mondo: chi altri, se non la Cisl Internazionale, avrebbe dovuto portare alla ribalta dell'opinione pubblica i problemi legati alla globalizzazione? Il fatto che ciò non sia inizialmente avvenuto ci fa riflettere: la strada da fare per un ruolo di orientamento e guida di un movimento capace di incidere davvero sulla scena mondiale è ancora molto in salita.

*Cgil e Cisl Lombardia, partecipanti al Forum

BASTA SANGUE IN UGANDA

"NelNord-Uganda da 17 anni è in corso una terribile guerra civile, di cui nessuno parla. Ogni giorno il cosiddetto Esercito di Liberazione del Signore (LRA),guidato da Joseph Kony, commette massacri, mutilazioni, torture di civili e rapimenti di bambini e bambine, destinati a diventare soldati e schiave. I bambini-soldato vengono usati come carne da macello, drogati, violentati,costretti ad assassinare i loro familiari e coetanei, obbligati a mangiare carne umana perché, perdendo la propria umanità, possano compiere atti disumani. In Uganda "la situazione umanitaria è peggiore di quella in Iraq: non c'è nessun altro posto al mondo con un'emergenza di questo livello, che richiama così poco l'attenzione internazionale" ha dichiarato recentemente Jan Egeland, vicesegretario generale dell'Onu. A questa presa di posizione non è ancora seguita alcuna iniziativa da parte della comunità internazionale, mentre i missionari Comboniani da mesi chiedono inutilmente l´invio dei Caschi Blu per difendere la popolazione civile. Ora basta! La terra ugandese è stanca di bere sangue, per questo ci appelliamo al Parlamento e al governo italiano, al Parlamento e ai governi d'Europa e alla comunità internazionale per porre fine a questa follia. Chiediamo la presenza attiva dell'Onu per salvare la vita di molte persone e dare inizio a un processo di pace".
Punto Pace PaxChristi di Verona chiede a tutti di dare la massima diffusione e questo appello e a sottoscriverlo inviando una e-mail di adesione (indicando nome, cognome e comune di residenza) all'indirizzo: paceperluganda@yahoo.it.


stime demografiche nell'Ue

All'inizio del 2004 la popolazione dell'Unione europea era di 380,8 milioni di abitanti,quella della "zona euro" di 306,9 milioni e quella di nuovi Stati membri eStati "aderenti" (Romania e Bulgaria) di 74,1 milioni. Nel corso del 2003 la popolazione dell'Ue è dunque aumentata del 3,4‰ e ciò è avvenuto per un incremento naturale dello 0,8‰ e per una migrazione netta del 2,6‰. Nei nuovi Stati membri, invece, malgrado un tasso di migrazione netta dello 0,4‰ la popolazione è diminuita dello 0,8‰ a causa di un incremento naturale negativo(-1,2‰).
E'quanto emerge dalle prime stime demografiche per il 2003 che Eurostat ha pubblicato lo scorso 9 gennaio. In totale, dunque, la popolazione dell'Ue è aumentata di 1.276.000 persone, il che rappresenta una crescita conforme a quella degli ultimi anni ma modesta rispetto agli incrementi registrati negli anni Cinquanta e Sessanta.
L'aumento della popolazione varia però sensibilmente tra i vari Stati membri, con l'Irlanda nettamente in testa al gruppo europeo (+15,3‰), seguita a distanza da Spagna (+7,2‰) e Portogallo (+6,9‰). In coda c'è la Germania (+0,1‰), piuttosto staccata dalle penultime Danimarca e Grecia (+2,6‰ ciascuno).
Trai nuovi Stati membri, invece, la metà ha visto diminuire la propria popolazione, con punte massime registrate in Lettonia (-5,6‰.) e Lituania (-4,5‰), mentre i rialzi più significativi sono stati quelli di Cipro (+17,4‰)e Malta (+5,7‰).
Il totale delle nascite nel 2003 è stato di 4,03 milioni nell'Ue, che rappresenta un aumento dell'1,1% rispetto al 2002: il livello più basso del dopoguerra. I tassi di natalità più elevati sono stati osservati in Irlanda (15,5 nascite per1000 abitanti), in Francia (12,7‰), nei Paesi Bassi (12,6‰) e in Danimarca(12,0‰). La Germania (8,6‰), la Grecia (9,3‰), l'Italia (9,4‰) e l'Austria(9,5‰) hanno invece fatto registrare i tassi di natalità più bassi.
Trai nuovi Stati membri e quelli in adesione, il tasso di natalità più elevato è stato registrato a Cipro (11,1‰), unico tasso superiore alla media dell'Ue(10,6‰), e il più basso in Slovenia (8,6‰).
Per quanto concerne invece la mortalità, i tassi più elevati nel 2003 sono stati quelli di Danimarca (10,7 decessi per 1000 abitanti), Germania e Svezia (10,4‰ciascuno). L'Irlanda (7,3‰), con la sua popolazione relativamente giovane, è lo Stato membro che registra il tasso di mortalità più basso.
Nel bilancio tra nati e morti, l'incremento naturale più elevato è stato quello dell'Irlanda (+8,3‰), mentre hanno registrato un tasso negativo Germania(-1,8‰), Italia (-0,8‰) e Grecia (-0,1‰).
Oltre i tre quarti dell'incremento della popolazione dell'Ue nel 2003 è dovuto all'immigrazione. La Spagna è il Paese europeo che ha registrato la percentuale di immigrazione più elevata (il 23% del totale dell'Ue), seguita da Italia (21%), Germania(16%) e Regno Unito (10%). In relazione all'incidenza che gli immigrati hanno avuto sulla crescita della popolazione, invece, i tassi netti di migrazione più alti sono stati quelli di Irlanda (+7‰), Portogallo (+6,1‰) e Spagna (+5,5‰), i più bassi in Olanda (+0,2‰) e Francia (+1‰). Per l'Italia, la Germania e la Grecia, sottolinea Eurostat, senza l'arrivo degli immigrati legali la popolazione complessiva avrebbe subito una riduzione.

Fonte:Eurostat, gennaio 2004

TABELLA EVOLUZIONE DELLA POPOLAZIONE EUROPEA NEL 2003

  Popolazione al gennaio 2003 (in migliaia) Nascite per 1000 abitanti Decessi per 1000 abitanti Incremento naturale per 1000 abitanti Migrazioni nette** per 1000 abitanti Incremento totale per 1000 abitanti Popolazione al gennaio 2004 (in migliaia)

UE15

379.483

10,6

9,8

0,8

2,6

3,4

380.759

Zona euro

305.829

10,4

9,7

0,6

2,8

3,4

306.868

Belgio

10.356

10,7

10,2

0,6

3,4

3,9

10.397

Danimarca

5384

12,0

10,7

1,3

1,3

2,6

5398

Germania

82.537

8,6

10,4

-1,8

1,9

0,1

82.545

Grecia

11.018

9,3

9,4

-0,1

2,7

2,6

11.047

Spagna

40.683

10,7

9,0

1,7

5,5

7,2

40.978

Francia

59.629

12,7

9,2

3,5

1,0

4,5

59.896

Irlanda

3964

15,5

7,3

8,3

7,0

15,3

4025

Italia

57.321

9,4

10,3

-0,8

3,6

2,8

57.482

Lussemburgo

448

11,5

8,5

3,0

2,5

5,6

451

Paesi Bassi

16.193

12,6

8,8

3,8

0,2

4,0

16.258

Austria

8067

9,5

9,6

0,0

3,1

3,1

8092

Portogallo

10.408

10,8

9,9

0,9

6,1

6,9

10.480

Finlandia

5206

10,8

9,2

1,6

1,1

2,7

5220

Svezia

8941

11,0

10,4

0,6

3,2

3,8

8975

Regno Unito

59.329

11,6

10,2

1,4

1,7

3,2

59.518

Islanda

289

14,1

6,3

7,8

-0,9

6,9

291

Liechtenstein

34

11,7

5,9

5,9

5,9

11,7

34

Norvegia

4552

12,0

9,4

2,6

2,5

5,1

4576

EEE

384.357

10,6

9,8

0,8

2,6

3,4

385.659

Svizzera

7324

9,7

8,5

1,2

6,0

7,2

7377

Nuovi Stati membri e Paesi aderenti

74.201

9,2

10,4

-1,2

0,4

-0,8

74.141

Repubblica ceca

10.203

8,9

10,5

-1,6

2,4

0,8

10.211

Estonia

1356

9,6

13,3

-3,7

-0,1

-3,8

1351

Cipro*

715

11,1

7,8

3,3

14,1

17,4

728

Lettonia

2332

8,8

14,1

-5,2

-0,3

-5,6

2319

Lituania

3463

8,8

11,8

-3,0

-1,4

-4,5

3447

Ungheria

10.142

9,5

13,4

-3,9

1,2

-2,7

10.115

Malta

397

10,0

8,2

1,8

3,9

5,7

400

Polonia

38.219

9,2

9,4

-0,2

-0,4

-0,6

38.194

Slovenia

1995

8,6

9,6

-1,0

1,8

0,8

1997

Slovacchia

5379

9,6

9,6

0,0

0,3

0,3

5381

Bulgaria

7846

8,4

14,3

-5,9

-

-5,9

7799

Romania

21.773

9,6

12,2

-2,6

0,0

-2,6

21.716

* Territorio controllato dal governo
** Comprese le correzioni dovute ai censimenti della popolazione, alle cifre dei registri dello stato civile, ecc.

Europarlamento: Patto di stabilità "più intelligente"

Il Parlamento europeo ha approvato lo scorso 26 febbraio una risoluzione che invita la Commissione europea a proporre adeguamenti per un'applicazione "più intelligente" del Patto di stabilità e crescita. L'aula ha ridimensionato le critiche alla decisione presa nel novembre scorso dal Consiglio dei ministri economici e finanziari (Ecofin) di bloccare le procedure di disavanzo eccessivo contro Francia e Germania e soppresso il paragrafo della risoluzione che appoggiava la scelta della Commissione di ricorrere alla Corte di giustizia contro la decisione dell'Ecofin. Secondo l'Europarlamento,l'Ecofin ha agito per "promuovere iniziative a favore della crescita in Europa"e ritiene che queste proposte "dovrebbero trovare più chiaramente riscontro nelle conclusioni del Consiglio sull'iniziativa europea per la crescita".
Il Parlamento europeo ritiene che esista un margine di manovra per portare la spesa a un livello compreso fra l'1 e l'1,27% del Pil2004-2006, in linea con le attuali prospettive finanziarie 2000-2006 e con gli obiettivi di Lisbona nonché con la promozione delle attività di investimento privato. Gli eurodeputati chiedono inoltre che vengano dati "nuovi indirizzi alla spesa pubblica, in modo che le varie rubriche di bilancio a livello europeo e nazionale riflettano le priorità politiche stabilite per il 2010".

bassa nell'Ue la spesa per ricerca

La spesa per la ricerca in Europa è ferma e questo mette a rischio il raggiungimento dell'obiettivo del 3% del Pil entro il 2010 stabilito dall'Ue.L'Unione si conferma un importatore netto di alta tecnologia e le proprie prestazioni potrebbero essere ulteriormente rallentate dai bassi livelli di spesa in scienza e tecnologia registrati nei dieci nuovi Stati membri. E'quanto emerge da uno studio congiunto di Eurostat e Commissione europea, che hanno rilevato e analizzato i dati sulle spese in ricerca e sviluppo dei Quindici e dei Dieci nel periodo 2000-2002.
Dopo aver speso l'1,98% del Pil in ricerca e sviluppo nel2001, l'Ue ha fatto registrare nel 2002 spese pari all'1,99% del Pil. Una stagnazione degli investimenti che rischia di diventare flessione con la riunificazione dell'Ue, dal momento che i Nuovi Stati membri hanno fatto registrare una spesa media dello 0,83% del Pil nel 2000 e dello 0,84% nel 2001.A fronte delle modeste prestazioni europee, nel 2001 gli Usa hanno speso per ricerca e sviluppo il 2,80% del proprio Pil e il Giappone il 2,98%. Anche se le prestazioni di alcuni Paesi quali Svezia e Finlandia (rispettivamente 4,27% e3,40% del Pil in ricerca nel 2001) sono incoraggianti, rileva lo studio, la maggior parte degli Stati membri non fa registrare passi avanti significativi e nei Paesi più grandi si assiste a una stagnazione tra il 2000 e il 2001. La Germania, ad esempio, è rimasta al 2,49%, mentre la Francia è passata dal 2,18%al 2,23% e la Gran Bretagna dall'1,85% all'1,89%, ma dai dati relativi 2002emerge una contrazione delle spese in Francia (-0,03%) e Gran Bretagna(-0,05%). L'Italia, con l'1,07% che rappresenta una percentuale nettamente inferiore alla media europea, è al terz'ultimo posto tra i Paesi dell'Ue, davanti solo alla Grecia (0,67%) e alla Spagna (0,94%).
(Fonte: Ansa)

nuova Campagna contro la pena di morte

Una nuova Campagna contro la pena di morte, indirizzata a contrastare le esecuzioni in Africa, è stata lanciata il 14 febbraio scorso dall'associazione "Nessuno tocchi Caino" con il supporto dell'Ue. La Campagna in Africa, sostiene l'associazione, sarà convergente con quella in Europa per superare dubbi e timori sulla validità di una moratoria internazionale e sulle possibilità che una risoluzione passi alle Nazioni Unite. Durante il suo turno alla presidenza dell'Ue, nel secondo semestre 2003, l'Italia aveva rinunciato a presentare la risoluzione all'Assemblea generale dell'Onu, una decisione deludente per le organizzazioni che lottano contro la pena capitale ma che "non ha dismesso l'impegno" affinché sia l'Ue a portare la moratoria all'Onu, hanno ricordato i responsabili dell'associazione. I dati mostrano una situazione in miglioramento negli ultimi 10 anni: nel 1993 erano 97 i Paesi dell'Onu che mantenevano la pena di morte, oggi sono 62. Nonostante ciò, le esecuzioni continuano: nel 2002sono state compiute da 32 Paesi circa 4069 esecuzioni e la situazione è particolarmente grave in Cina e Iran, Paesi dove si registra l'85% del totale mondiale delle esecuzioni.
INFORMAZIONI: www.nessunotocchicaino.it

droghe: allarme epatite C

L'Osservatorio europeo sulle droghe e le tossicodipendenze (Emcdda) ha lanciato nelle scorse settimane un allarme sull'epidemia latente'' del virus dell'epatite C (Hcv) tra i tossicodipendenti che si iniettano droghe in Europa.
Secondo l'Osservatorio il fenomeno ha ormai assunto dimensioni "inquietanti" e interessa almeno 500.000 persone (circa la metà di quelle infette dal virus Hcv nell'Ue). L'infezione da epatite C tra chi fa uso di stupefacenti per via endovenosa si è trasformata nel corso degli ultimi anni"in una vera e propria epidemia", la cui incidenza è nettamente più elevata rispetto al contagio da Hiv e si diffonde a una velocità dieci volte superiore rispetto all'Aids. I dati dell'Emcdda mostrano che la diffusione del virus tra chi usa la siringa da meno di due anni varia tra il 30% e il 90% a seconda della popolazione esaminata. In particolare, i consumatori di droghe per via endovenosa "sono ormai il gruppo a più alto rischio Hcv e rappresentano fino al60%-90% dei nuovi infetti". La percentuale di infetti da epatite C tra i tossicodipendenti "iniettori'' è del 62% in Portogallo, 60% in Spagna e Austria e 55% in Irlanda. L'Italia, insieme al Belgio, segue a ridosso dell'Irlanda con il 47%. Ai circa 500.000 tossicodipendenti infetti, sostiene l'Emcdda, vanno aggiunti gli ex tossicodipendenti per via endovenosa e le persone infettatesi per altre via, raggiungendo così un totale di oltre un milione di persone affette da epatite C nell'Ue. Il problema viene ulteriormente aggravato dall'emergente diffusione di uso di stupefacenti per iniezione nei nuovi Stati membri dell'Ue.
"Ogni anno di ritardo nella prevenzione di tali infezioni comporta un incremento dei costi di trattamento pari a 1,4 miliardi di euro" sostiene l'Emcdda che lancia un appello urgente a tutti gli Stati membri dell'Ue: "I responsabili politici non si possono permettere di ignorare le implicazioni di questa epidemia latente. L'atteggiamento di inerzia da parte della sanità pubblica può avere serie conseguenze".
INFORMAZIONI:
www.emcdda.org

discriminazioni e razzismo nell'Ue

Secondo la Commissione contro il razzismo e l'intolleranza, organo specializzato del Consiglio d'Europa, alcuni fenomeni di discriminazione e incitamento all'odio razziale continuano a destare preoccupazione in Europa. Presentando il 27 gennaio scorso cinque nuovi Rapporti su Belgio, Svizzera, Bulgaria, Norvegia e Slovacchia, la Commissione ha constatato "un'evoluzione positiva" ma anche elementi preoccupanti. Per il Belgio, ad esempio, la Commissione segnala la questione dei partiti politici di estrema destra che fanno "uso di una propaganda razzista o xenofoba". La crescita di manifestazioni di antisemitismo e di islamofobia, sottolinea, "richiedono sforzi da parte di tutta la società belga". Per quanto concerne la Svizzera,invece, il Consiglio d'Europa critica il "trattamento discriminatorio dellapolizia verso alcune minoranze come quelle nere africane". Anche il problema delle richieste di asilo e dei rifugiati politici "suscita un dibattito negativo e ostile". Per la Bulgaria le discriminazioni individuate sono soprattutto quelle contro i Rom, così come in Slovacchia dove si aggiungono anche "gravi manifestazioni di brutalità di polizia". In Norvegia, poi, "resta molto da fare perché gli immigrati possano avere un impiego e un alloggio".
INFORMAZIONI: www.coe.int

Onu: l'Ue ha bisogno di immigrati

"L'Europa ha bisogno di immigrati e se chiude le sue porte rischia la stagnazione; nei prossimi anni l'immigrazione sarà uno dei terreni principali su cui l'Unione europea verrà messa alla prova". E' quanto ha affermato il 29 gennaio scorso il segretario generale dell'Onu Kofi Annan, intervenuto nell'aula del Parlamento europeo per ritirare il "premio Sakharov''. Secondo Annan, le società europee hanno bisogno di immigranti, perché senza l'immigrazione la popolazione dei Paesi dell'Ue diminuirà: da circa 450 milioni di persone oggi, potrebbe scendere a meno di 400 milioni nel 2050. I Paesi europei, ha dichiarato Annan,"potranno allora riscontrare una mancanza di mano d'opera per far funzionare l'economia e assicurare certi servizi, e le conseguenze saranno il marasma e la stagnazione". Secondo il segretario generale dell'Onu, la chiusura delle frontiere non solo nuocerebbe a lungo termine alla loro situazione economica e sociale, ma porterebbe un numero sempre più elevato di persone a tentare di entrare illegalmente sul territorio europeo, con gravi rischi per la loro incolumità e per i loro diritti. Annan ha quindi esortato i governi europei ad adottare politiche di integrazione degli immigrati, perché "un'Europa aperta e capace di gestire l'immigrazione sarà un'Europa più giusta, più ricca, più forte e più giovane".

PROGETTO "INNOVACION Y TRABAJO"

Da 10 anni la Ces e la Confederazione europea delle cooperative di lavoro e delle imprese sociali e partecipate (Cecop) si impegnano in un dialogo sulla lotta alla disoccupazione,per il miglioramento dell'occupabilità e dell'organizzazione del lavoro. Le due confederazioni hanno collaborato anche su temi come la responsabilità sociale delle imprese e le politiche di inclusione, dialogo che si articola anche a livello nazionale: il trasferimento di impresa in Italia, la formazione in Francia, le norme sul lavoro, specialmente del lavoro autonomo, in Spagna.
Nel 2000, la Commissione europea ha consultato le parti sociali europee sulla questione della modernizzazione e del perfezionamento delle relazioni industriali. Come risultato di questa consultazione sono stati presentati due studi che hanno evidenziato la difficoltà a delimitare il confine tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, così come la quasi totale assenza di un quadro normativo giuridico legale per le nuove forme di lavoro indipendente.
Su queste basi si è svolta nel novembre scorso la conferenza finale del progetto Innovacion y Trabajo, organizzata da Cecop, Federazione catalana di imprese partecipate(Fesalc), Lega delle cooperative della Toscana, sindacati dei lavoratori atipici, Comisiones Obreras, Cgil Nidil, organizzazioni dell'economia sociale,amministrazioni locali che compongono il consorzio Xarxa Local. L'obiettivo della conferenza era di presentare i risultati del progetto, le ricerche realizzate sulla definizione del lavoratore autonomo a livello europeo, tenendo presenti le evoluzioni recenti che hanno ridefinito la frontiera tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, soprattutto in Spagna, Italia, Austria e Paesi Bassi e soprattutto in certi settori come i servizi, il giornalismo, la ricerca e le nuove tecnologie di comunicazione e informazione. Tra le molte rilevazioni emerse quella del concetto di lavoratore indipendente: si applica a quei lavoratori e lavoratrici che non si identificano nella definizione tradizionale del lavoratore subordinato/occupato, ma nemmeno in quella di tradizionale lavoratore autonomo.