Inserto n. 45:
Libro Verde lavoro


obiettivo “flexicurity”:
come conciliare flessibilità e sicurezza

Lanciare un dibattito pubblico nell’UE al fine di riflettere sul modo di far evolvere il diritto del lavoro in modo tale da sostenere gli obiettivi della Strategia di Lisbona: ottenere una crescita sostenibile con più posti di lavoro di migliore qualità. Questo l’obiettivo dichiarato dal Libro Verde pubblicato dalla Commissione europea il 22 novembre 2006 dal titolo Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo.
Secondo la Commissione, infatti, la modernizzazione del diritto del lavoro costituisce «un elemento fondamentale per garantire la capacità di adattamento dei lavoratori e delle imprese» all’impatto della mondializzazione e dell’invecchiamento demografico in Europa. Tale modernizzazione deve però basarsi su una «sfida» che la Commissione ritiene centrale per i mercati del lavoro europei, ma che non è di facile soluzione e infatti costituisce il nodo del dibattito aperto dal Libro Verde: «Conciliare una maggiore flessibilità con la necessità di massimizzare la sicurezza per tutti». Una sorta di “quadratura del cerchio” che la Commissione ha sintetizzato col neologismo flexicurity (flessicurezza in italiano), quasi un dogma per l’esecutivo europeo e, contemporaneamente, un problema di difficile soluzione per i governi e soprattutto per le organizzazioni sindacali di tutta Europa. Perché trattasi di neologismo che nasce dalla presa d’atto di dover necessariamente introdurre efficaci elementi di protezione per i lavoratori in mercati del lavoro sempre più flessibili, che hanno certo contribuito alla creazione di nuovi posti di lavoro ma che hanno indubbiamente anche accresciuto la precarietà e l’insicurezza dei lavoratori. «La ricerca della flessibilità sul mercato del lavoro - constata lo stesso Libro Verde - ha generato una crescente diversità delle forme dei contratti di lavoro, che possono essere molto differenti dal modello classico di contratto, sia dal punto di vista della sicurezza dell’occupazione e del reddito che da quello della stabilità relativa delle condizioni di lavoro e di vita che vi sono associate».

vantaggi della flessibilità

Le riforme della legislazione sulla tutela dell’occupazione, avviate in tutta Europa dall’inizio degli anni Novanta, hanno riguardato soprattutto l’«ammorbidimento» delle norme esistenti al fine di favorire la diversità contrattuale. L’intenzione era di sviluppare una flessibilità “marginale”, cioè creare forme di occupazione più flessibili con una minore tutela contro il licenziamento, nella convinzione che ciò avrebbe facilitato l’ingresso nel mercato del lavoro di coloro che si trovano in posizioni svantaggiate e dato loro maggiori opportunità e possibilità di scelta. «Modelli alternativi di rapporti contrattuali possono rafforzare la capacità delle imprese a sviluppare la creatività del loro personale nel suo insieme e a sviluppare i vantaggi concorrenziali» osserva il Libro Verde. Utilizzando forme atipiche di contratti, le imprese hanno cercato di rimanere competitive nell’economia globalizzata, evitando i costi derivanti dal rispetto delle norme relative alla protezione del posto di lavoro, i termini di preavviso e il pagamento dei contributi sociali che vi sono associati. Secondo la Commissione, «i contratti atipici e i contratti standard flessibili consentono alle imprese di adeguarsi rapidamente all’evoluzione delle scelte dei consumatori e delle tecnologie e a nuove opportunità per attrarre e mantenere una manodopera più diversificata, grazie a un migliore adeguamento dell’offerta e della domanda di manodopera». Vantaggi per le imprese, dunque, ma anche per i lavoratori secondo l’analisi della Commissione: «I lavoratori hanno maggiori opzioni, in particolare per quanto riguarda l’organizzazione dell’orario di lavoro, le possibilità di carriera, un migliore equilibrio tra la vita familiare e professionale e la formazione, oltre a una maggiore responsabilità personale».

ricadute sulla sicurezza


La generale ricerca di flessibilità ha però creato mercati del lavoro sempre più segmentati. I contratti a tempo determinato, a tempo parziale, di lavoro “intermittente”, a “zero ore”, quelli proposti ai lavoratori reclutati da agenzie di lavoro o ai lavoratori indipendenti, costituiscono oggi «parte integrante delle caratteristiche dei mercati del lavoro europei», nota il Libro Verde. I cosiddetti contratti “atipici”, cioè, sono sempre più “tipici”, tanto che la quota di occupazione europea reclutata con tali modalità ha ormai superato il 40% della forza lavoro dell’Ue, gli impieghi a tempo determinato riguardano circa il 14% degli occupati, mentre l’occupazione a tempo parziale ha dato dopo il 2000 un contributo alla creazione di posti di lavoro maggiore (circa il 60%) rispetto all’occupazione standard a tempo pieno.
Il 60% delle persone che nel 1997 erano state reclutate nell’Ue (a 15 Stati) sulla base di contratti atipici disponeva di contratti standard nel 2003, ma il 16% si trovava sempre nella stessa situazione e il 20% aveva abbandonato il mercato del lavoro. Il rischio di essere in una posizione di debolezza sul mercato del lavoro, indiscutibilmente accresciuto dalle nuove e variegate forme contrattuali, comporta anche «una forte dimensione di genere e di intergenerazionalità», osserva il Libro Verde, poiché le donne e i lavoratori più anziani, ma anche i giovani assunti in base a contratti atipici, hanno generalmente minori possibilità di migliorare la loro situazione sul mercato, anche se gli Stati membri registrano tassi di transizione molto diversi tra loro.

adattare la legislazione

A fronte di una simile situazione, la Commissione europea ritiene necessario un generale adattamento della legislazione del lavoro, per promuovere insieme flessibilità e sicurezza dell’occupazione e per ridurre la segmentazione del mercato del lavoro. Le norme giuridiche che regolano il rapporto di lavoro tradizionale, infatti, secondo la Commissione «non danno forse un sufficiente margine di manovra ai lavoratori reclutati sulla base di contratti a durata indeterminata standard per esplorare le opportunità di una maggiore flessibilità sul lavoro e non li incoraggiano ad agire in questo senso». Al dialogo sociale è riconosciuto un ruolo «essenziale» nella ricerca di soluzioni «collettive e/o a livello delle imprese», al fine di consentire ai lavoratori “integrati” ma anche agli “esclusi” «di effettuare con successo le transizioni tra le varie situazioni lavorative», aiutando al tempo stesso le imprese a «rispondere in modo flessibile» alle trasformazioni del panorama competitivo generate dalla ristrutturazione. Altre componenti alla base dell’approccio di flexicurity sono, secondo la Commissione, l’apprendimento permanente, le politiche attive del mercato del lavoro e regole più flessibili nel settore della sicurezza sociale.
Proponendosi di stimolare la discussione, attraverso alcune riflessioni e 14 domande rivolte a tutti i soggetti interessati (vedi box di seguito), per capire se un quadro regolamentare «più reattivo» possa rafforzare la capacità di «gestire i cambiamenti», il Libro Verde intende dunque:

• Identificare le principali sfide che non hanno ancora trovato una risposta soddisfacente e che sono il riflesso della distanza tra i contesti giuridici e contrattuali e le realtà del mondo del lavoro.
• Far partecipare i governi degli Stati membri, le parti sociali e le altre parti interessate a un dibattito aperto per esaminare in che modo il diritto del lavoro può contribuire a promuovere la flessibilità combinata con la sicurezza del posto di lavoro, contribuendo ad aumentare l’occupazione.
• Stimolare il dibattito sui modi in cui i vari tipi di rapporti contrattuali, insieme a diritti del lavoro applicabili a tutti i lavoratori, potrebbero favorire la creazione di posti di lavoro e avvantaggiare sia i lavoratori che le imprese, agevolando le transizioni nel mercato del lavoro, incoraggiando l’apprendimento permanente e sviluppando la creatività della manodopera nel suo insieme.

INFORMAZIONI: http://ec.europa.eu/employment_social/labour_law/docs/2006/green_paper_it.pdf


LE DOMANDE DEL LIBRO VERDE



1) Quali sarebbero secondo voi le priorità di un programma coerente di riforma del diritto del lavoro?

2) L’adattamento del diritto del lavoro e degli accordi collettivi può contribuire a migliorare la flessibilità e la sicurezza dell’occupazione e a ridurre la segmentazione del mercato del lavoro? Se sì, come?

3) La regolamentazione esistente - sotto forma di leggi e/o di contratti collettivi - frena o stimola le imprese e i lavoratori nei loro sforzi per cogliere le opportunità di aumentare la produttività e di adeguarsi alle nuove tecnologie e ai cambiamenti collegati alla concorrenza internazionale? Come può essere migliorata la qualità della regolamentazione applicabile alle PMI, mantenendone gli obiettivi?

4) Come facilitare il reclutamento mediante contratti a tempo indeterminato e determinato, sia per via legislativa sia attraverso accordi collettivi, in modo da aumentare la flessibilità di tali contratti garantendo al tempo stesso un livello sufficiente di sicurezza dell’occupazione e di protezione sociale?

5) Sarebbe utile prendere in considerazione una combinazione di una normativa di tutela dell’occupazione più flessibile e di una ben congegnata assistenza per i disoccupati, sotto forma di compensazioni per la perdita di reddito (politiche passive del mercato del lavoro) ma anche di politiche attive del mercato del lavoro?

6) Quale può essere il ruolo della legge e/o degli accordi collettivi negoziati dalle parti nella promozione dell’accesso alla formazione e le transizioni tra le varie forme di contratto, al fine di sostenere la mobilità verticale lungo tutto l’arco di una vita professionale pienamente attiva?

7) Le definizioni giuridiche nazionali del lavoro dipendente e del lavoro autonomo devono essere chiarite in modo da facilitare le transizioni in buona fede tra lo status di lavoratore dipendente e quello di lavoratore autonomo e viceversa?

8) È necessario prevedere un “nucleo di diritti” relativo alle condizioni di lavoro di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla forma del loro contratto di lavoro? Quale sarebbe, secondo voi, l’impatto di tali requisiti minimi sulla creazione di posti di lavoro e la tutela dei lavoratori?

9) Ritenete che le responsabilità delle varie parti nell’ambito di rapporti di lavoro multipli dovrebbero essere precisate per determinare a chi incombe la responsabilità del rispetto dei diritti del lavoro? Sarebbe realizzabile ed efficace ricorrere alla responsabilità sussidiaria per stabilire questa responsabilità nel caso dei subappaltatori? In caso di risposta negativa, vedete altri mezzi che consentano di garantire una sufficiente tutela dei lavoratori nei “rapporti di lavoro triangolari”?

10) È necessario chiarire lo statuto dei lavoratori impiegati dalle agenzie fornitrici di lavoro temporaneo?

11) Come si potrebbero modificare i requisiti minimi in materia di organizzazione dell’orario di lavoro al fine di offrire una maggiore flessibilità ai datori di lavoro e ai lavoratori, garantendo al tempo stesso un elevato livello di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori? Quali dovrebbero essere gli aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro da trattare in via prioritaria da parte della Comunità?

12) Come è possibile garantire nell’insieme della Comunità i diritti del lavoro di lavoratori che effettuano prestazioni in un contesto transnazionale, in particolare dei lavoratori frontalieri? Ritenete che sia necessario migliorare la coerenza delle definizioni di “lavoratore” contenute nelle direttive europee, in modo da garantire che questi lavoratori possano esercitare i loro diritti connessi alle loro attività lavorative, quale che sia lo Stato membro nel quale lavorano? O ritenete che gli Stati membri debbano mantenere un margine di manovra in questo settore?

13) Ritenete che sia necessario rafforzare la cooperazione amministrativa tra le autorità competenti, in modo che esse possano controllare più efficacemente il rispetto del diritto del lavoro comunitario? Ritenete che le parti sociali abbiano un ruolo da svolgere in tale cooperazione?

14) Ritenete che altre iniziative siano necessarie a livello dell’UE al fine di sostenere l’azione degli Stati membri nella lotta contro il lavoro non dichiarato?

osservazioni di Cgil-Cisl-Uil sul Libro Verde



Nel gennaio 2007, Cgil-Cisl-Uil hanno reso noto un documento unitario contenente il parere delle tre organizzazioni sindacali italiane sui contenuti del Libro Verde. Lo riportiamo di seguito integralmente, segnalando che le parti virgolettate, se non altrimenti specificato, si riferiscono a brani del Libro Verde cui seguono i relativi commenti dei sindacati.


capitolo 2: il diritto del lavoro nell’Ue

«Il modello tradizionale del rapporto di lavoro può non essere adeguato a tutti i lavoratori assunti sulla base di contratti a durata indeterminata standard e chiamati a raccogliere la sfida dell’adeguamento alle trasformazioni e a raccogliere le opportunità della globalizzazione. Clausole e condizioni eccessivamente protettive possono scoraggiare i datori di lavoro dall’assumere durante i periodi di ripresa economica. Modelli alternativi di rapporti contrattuali possono rafforzare la capacità delle imprese a sviluppare la creatività del loro personale nel suo insieme e a sviluppare i vantaggi concorrenziali». Troviamo qui espressa la filosofia del Libro Verde e le ragioni della nostra contrarietà. Se è vero che con tipologie contrattuali diverse si può rispondere ad esigenze di flessibilità della produzione e migliorare le performance occupazionali di un sistema economico, ciò non rimanda in alcun modo all’esigenza di mettere in discussione le tutele di stabilità connesse al rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Siamo invece oggi di fronte, in molte economie europee, al problema di come fronteggiare una proliferazione di rapporti “flessibili”, di come contrastare una durata eccessiva dell’instabilità lavorativa, e soprattutto di come rendere sostenibili i rapporti di lavoro flessibili tramite una adeguata protezione sul mercato del lavoro. Per il sindacato italiano il problema è quello di ricercare equilibri più avanzati tra l’utilizzo delle forme flessibili di lavoro e la sicurezza e stabilità del lavoro stesso.

capitolo 3: un mercato del lavoro flessibile e inclusivo

• Nell’elenco delle tipologie non ordinarie si citano i rapporti a part-time (pag.8), senza distinguere - salvo che nella nota a piè di pagina - quanti siano a tempo indeterminato e quanti a termine. Ciò non aiuta a definire l’ampiezza della popolazione precaria, dato che, salva naturalmente la questione sulla volontarietà o meno del rapporto e la quantità di ore (ossia di reddito) propria del rapporto, un lavoro part-time a tempo indeterminato non prevede diminuzione di diritti (e di stabilità) rispetto al “normale” rapporto a tempo pieno.
• Nella descrizione della crescita, assai significativa a livello UE, dei rapporti a termine, si afferma un’assenza di distorsioni di genere, il che non è vero per l’Italia, trattandosi (dati Istat) di un rapporto in cui la maggioranza assoluta degli occupati è donna, ma anche in Europa, dato che recenti stime della Fondazione di Dublino riferiscono essere il peso di donne e uomini impiegati a termine in Europa, rispettivamente, pari al 14% e al 10% della popolazione lavorativa.
• Dal dato, indubitabile, che sono in crescita i rapporti non standard, se ne «deduce» che «sarebbe forse necessario esaminare il grado di flessibilità previsto dai contratti standard in modo tale da facilitare l’assunzione, il mantenimento e i progressi del mercato del lavoro». Ribadiamo che, di fronte alla crescita dei rapporti non standard, il rimedio per evitare la segmentazione del mercato del lavoro non può essere l’aumento del grado di flessibilità dei contratti a tempo indeterminato, bensì l’aumento del grado di tutela, sia all’interno del rapporto di lavoro, sia nel mercato del lavoro.
• Sul «lavoro autonomo», pure indicato in crescita, si afferma che «riflette la libera scelta di svolgere un’attività indipendente malgrado i livelli inferiori di protezione sociale in cambio di un controllo più diretto sulle condizioni di lavoro e di retribuzione». Si tratta di una affermazione che non è possibile generalizzare, come dimostra il caso dell’ Italia che ha, nel contesto comunitario, un’anomalia in più per il peso esorbitante di questo tipo di rapporti di lavoro (dati difformi secondo diverse fonti, comunque non inferiori al milione di persone). A tale proposito va sottolineato, dato del tutto assente nel testo, che le tutele a garanzia dei processi di mobilità transeuropea sono connesse soltanto ai rapporti subordinati (ad es. distacco di lavoratori in occasione di fornitura di servizi), ma esse sono assenti riguardo ad altre tipologie lavorative, il che ha già costituito un problema di dumping sociale segnalato durante il regime transitorio nell’ingresso di nuovi Stati Membri (2004-06).
• La diversificazione dei tipi di contratti può rappresentare una «trappola di un succedersi di attività di breve durata e di bassa qualità, con un insufficiente livello di protezione sociale. (…) Questi impieghi possono tuttavia servire da trampolino per alcune persone, spesso quelle che hanno particolari difficoltà, per integrarsi nel mercato del lavoro». Il Libro Verde non prende posizione, anzi continua a dare una lettura del tutto ambivalente (trampolino o trappola?). Sarebbe invece il caso di esplicitare che i rapporti di lavoro flessibili rischiano di diventare una trappola in assenza di politiche che, da una parte, rafforzino il sostegno sul mercato del lavoro e favoriscano la fuoriuscita verso il lavoro stabile, dall’altra, assicurino ai lavoratori i diritti propri del lavoro stabile. Le cifre sulle «transizioni» (pag. 9) sono allarmanti: il 60% degli occupati atipici nel 1997 aveva acquisito uno status stabile nel 2003! Cioè a dire: 6 anni di precarietà come media comunitaria! Il testo si esime dal commentare questo dato davvero preoccupante.
• «La recente relazione Occupazione in Europa 2006 fa riferimento a dati secondo i quali l’esistenza di una legislazione troppo rigidamente protettiva dell’occupazione tende a ridurre il dinamismo del mercato del lavoro, aggravando le condizioni delle donne, dei giovani e dei lavoratori più anziani». Il riferimento citato nel testo non è affatto così diretto ed esplicito. Aver voluto ripresentare questa tesi, peraltro con rinvii non corretti ad altri testi, suggerisce un pregiudizio ideologico, contrario alla logica cui dovrebbe sottostare un Libro Verde. Si colgono qui, in tutta evidenza, i rischi cui è sottoposto il “modello sociale europeo” se si imbocca acriticamente la visione dell’Ue come mercato unico, senza intrecciarla agli elementi di coesione che sono stati il tratto distintivo del “modello sociale europeo”.
• La conseguenza di ciò è che i «sussidi di disoccupazione ben concepiti, uniti a politiche attive del lavoro», sono posti in alternativa alle tutele del rapporto di lavoro. Ribadiamo invece che tutele del rapporto e tutele nel mercato sono entrambe necessarie.

capitolo 4: temi per il dibattito

I temi posti al dibattito sono raggruppati in 6 paragrafi dedicati rispettivamente a: le transizioni professionali; l’insicurezza giuridica; i rapporti di lavoro triangolari; l’organizzazione dell’orario di lavoro; la mobilità dei lavoratori; aspetti del controllo della legislazione e lavoro non dichiarato (sommerso).

a) Le transizioni professionali: proseguendo sull’elaborazione del capitolo precedente, si ipotizza una difficoltà normativa riguardo alle transizioni dalla condizione precaria ad una migliore. Si citano positivamente le legislazioni olandese sulla flessibilità e sicurezza (1999), austriaca sulle indennità di licenziamento (2002) e quella spagnola sugli incentivi alla stabilizzazione dei contratti a termine (2006). Si tratta di testi assai diversi tra loro, dagli obiettivi molto lontani tra loro (maggiore dinamismo e riduzione di costi per il licenziamento i primi due, sostegno alla stabilità dei lavoratori a termine il terzo), che il Libro Verde accomuna sotto l’ombrello di misure che diminuiscono per la singola impresa i costi del licenziamento, e quindi ritiene funzionali alla tesi di una “flessibilizzazione” del rapporto standard come misura utile a favorire l’inclusione dei lavoratori precari: come accennato sopra, i risultati statisticamente osservabili non supportano questo giudizio. È invece positivo che si affermi la necessità di adottare un approccio di lavoro «lungo tutto il ciclo di vita», spostando l’accento dalla sola tutela dei posti di lavoro alla «creazione di un quadro di sostegno in grado di garantire la sicurezza dell’occupazione, compresa un’assistenza sociale e misure attive di sostegno ai lavoratori durante i periodi di transizione» (vedi esperienze scandinave non citate nel testo). Ribadiamo che non è né corretto né utile contrapporre tutele sul posto di lavoro a benefici riguardanti i livelli degli ammortizzatori sociali, quanto puntare ad un mix equilibrato ma universale di misure preventive di sostegno all’occupazione, accompagnate da misure generali ed efficaci di sostegno al reddito e al patrimonio di competenze del lavoratore in caso di perdita dell’impiego. Non si può sottacere che la difficoltà a generalizzare tali politiche sta nel loro impatto sulla spesa pubblica.
b) Insicurezza giuridica: il tema qui è il rapporto di collaborazione (self employed). Oltre a considerazioni ovvie sull’incertezza giuridica riguardo alla definizione di simili figure, si arriva al paradosso di sottolineare il pericolo che «alcuni individui, che pensano di essere “autonomi”, possono a volte essere considerati come lavoratori dipendenti dalle amministrazioni fiscali o dalla sicurezza sociale. Di conseguenza il lavoratore autonomo/dipendente e il suo cliente/datore di lavoro principale possono vedersi costretti a pagare contributi sociali supplementari». Francamente, nessuno ha mai segnalato questo come un problema, anzi, ci si dovrebbe preoccupare piuttosto della concorrenza scorretta realizzata dal ricorso da parte del sistema economico a forme fittiziamente autonome nei confronti dell’occupazione stabile e tutelata. Molto interessante, a tale ultimo proposito, il concetto citato dal Libro Verde di «lavoratori economicamente dipendenti», che potrebbe aprire la strada a sistemi di diritto del lavoro realmente inclusivi, nonché all’altezza delle sfide poste dalla globalizzazione, se non inteso come fattispecie meramente “intermedia” tra le due fattispecie classiche della prestazione lavorativa, subordinata e autonoma, cui attribuire diritti a loro volta intermedi tra quelli propri del lavoro subordinato e quelli propri del lavoro autonomo. L’opzione da investigare ci apparirebbe più fruttuosa se permettesse di attrarre nella sfera dei diritti del lavoro quelle attività che rivestono caratteristiche proprie di esso dal punto di vista della dipendenza economica (ad es. nel caso di monocommittenza, di definizione da parte del committente dei regimi di orario e condizioni di impiego). In tal modo l’inclusione giuridica opererebbe in modo da impedire il dumping tra tipologie lavorative e invece favorire la genuina attribuzione di forme di flessibilità organizzativa allo svolgimento delle prestazioni (ad es. senza vincoli di orario e/o di riferimenti gerarchici), là dove effettivamente necessarie e liberamente decise dai contraenti.
c) Rapporti triangolari: ci si riferisce sia al lavoro interinale che ai lavoratori impiegati nelle catene dei subappalti. Il concetto è quello di esplicitare le responsabilità del datore di lavoro effettivo, il che è senz’altro da condividere.
d) Orario: il testo ripropone una nuova tornata del “tormentone” sulla revisione della Direttiva 2003/88, dopo lo stallo registratosi nel Consiglio dei ministri del 7 novembre 2006.Per noi, com’è noto, ogni ipotesi di peggioramento delle precedenti Direttive è escluso a priori.
e) Mobilità dei lavoratori: riguardo alla definizione di “lavoratore” cui destinare i diritti assicurati dalla normativa comunitaria, che è diversa a seconda delle legislazioni nazionali, si suggerisce di valutare l’opportunità di una definizione comune a livello comunitario. Si tratta di un obiettivo giusto, ma i cui contorni non sono definiti ed è da questi che si può ricavarne un giudizio.
f) Aspetti legati all’applicazione della legislazione e alla repressione del lavoro nero: si suggerisce di rafforzare la cooperazione tra servizi ispettivi e una maggiore inclusione delle parti sociali. Poco per dare un giudizio. conclusioni
Il Libro Verde prevede un periodo di ascolto di quattro mesi, dopodiché confluirà in una Comunicazione della Commissione, quindi un documento ufficiale. Le premesse sono tutt’altro che positive, ed è necessaria un’opera attiva di reazione, sia a livello di singole strutture che di organizzazioni, e una presa di posizione del governo italiano e della Ces, nonché delle Federazioni industriali europee, affinché sia cambiata la filosofia che è alla base di questo documento, e posta su basi corrette l’esigenza corretta ed urgente di un’evoluzione inclusiva del diritto del lavoro europeo e nazionale.

Da questo punto di vista, l’Italia e le sue organizzazioni sindacali possono far valere alcuni elementi:

• Il dualismo insiders/outsiders è un problema che ha riguardato in passato il nostro mercato del lavoro, ma è una visione non solo superata dai fatti ma anche riduttiva, in quanto, se usata come unica chiave di lettura, rischia di riprodurre a un livello diverso le segmentazioni che si proponeva di superare.
• Proprio l’esperienza italiana ci suggerisce di superare ogni approccio che faccia risiedere nelle sole politiche di flessibilità la leva per una crescita occupazionale, trascurando o rinviando a tempi migliori le politiche di sviluppo, di formazione continua, le politiche attive e le politiche di sostegno al reddito. Di queste invece, in una logica inclusiva sopra delineata, sì ha bisogno assoluto affinché lo sviluppo si traduca in occupazione stabile e tutelata.
• Va inoltre valorizzato l’approccio del governo Prodi, in particolare la combinazione dell’uso della leva fiscale a sostegno esclusivamente del lavoro stabile, unita a misure specifiche di sostegno ai processi di stabilizzazione ed emersione dal sommerso, che rappresentano la vera novità, anche in campo europeo, per sostenere la “buona occupazione” e combattere la precarietà degli impieghi.


le risposte di Cgil-Cisl-Uil alle domande del Libro Verde

1) Il cuore di una riforma efficace del diritto del lavoro alla luce delle trasformazioni descritte nel Libro Verde non può che risiedere nell’assicurare tutele sia sul posto di lavoro che nel mercato del lavoro. Quindi, da una parte va superato il differenziale di costi e di diritti che spesso è collegato alle nuove forme di rapporto di lavoro (soprattutto di tipo parasubordinato), dall’altra vanno garantiti percorsi per chi è in cerca di occupazione, o in transito da un lavoro ad un altro, che prevedano politiche attive e ammortizzatori sociali. Ma in nessun modo può prevalere un principio di “vasi comunicanti” per cui all’allargamento di diritti per i cosiddetti outsiders deve corrispondere una diminuzione delle tutele godute dai cosiddetti insiders. L’altro argomento di stringente attualità è la corresponsabilizzazione dell’impresa riguardo il destino e le condizioni di lavoro dei lavoratori coinvolti in pratiche - lecite - di esternalizzazione di attività (e di lavoro) verso terzi, sia nel caso di altre imprese che di lavoro autonomo.
2) La segmentazione del mercato del lavoro dipende anche da un rapporto non equilibrato tra flessibilità e sicurezza. In Italia, infatti, l’introduzione di forme di flessibilità nel rapporto di lavoro senza adeguate tutele sul mercato del lavoro sta riproducendo, ad un livello diverso, le forme di segmentazione che si volevano superare quando, 15 anni fa, si denunciava la rigidità della normativa e la conseguente divisione tra insiders e outsiders. Per evitare la segmentazione va quindi migliorato il rapporto tra flessibilità e sicurezza, perché la flessibilità diventa sia maggiormente sostenibile sia più accettabile per il lavoratore che sa di poter contare su adeguate tutele nel mercato del lavoro.
3) Come già detto, riteniamo da migliorare la regolamentazione esistente nel senso sopra indicato. Il miglioramento delle tutele e sicurezze per i lavoratori non rappresenta affatto un freno all’aumento della produttività e all’adeguamento alle nuove tecnologie e ai cambiamenti collegati alla concorrenza internazionale. È perdente invece una competizione al ribasso sia all’interno dell’Europa, sia verso i Paesi terzi. L’approccio deve essere quindi rovesciato, in quanto condizioni meno favorevoli per fasce di popolazione lavorativa ingenerano una distorsione nei meccanismi decisionali delle imprese. Si deve pertanto operare (come da nostra risposta al punto 1) nel senso della ricomposizione dei diritti e della inclusione tra le diverse tipologie d’impiego, assicurando a tutti tutele collettive e ammortizzatori sociali (su cui si veda il punto 5).
4) Se è vero che con tipologie contrattuali flessibili si può rispondere ad alcune esigenze della produzione e migliorare le performance occupazionali di un sistema economico, ciò non rimanda in alcun modo all’esigenza di mettere in discussione le tutele di stabilità connesse al rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Siamo invece oggi di fronte, in molte economie europee, al problema di come fronteggiare una proliferazione di rapporti “flessibili”, di come contrastare una durata eccessiva dell’instabilità lavorativa che crea problemi di percorsi professionali e di vita, e soprattutto di come rendere sostenibili i rapporti di lavoro flessibili tramite una adeguata protezione sul mercato del lavoro. L’obiettivo deve essere quello di ricercare equilibri più avanzati tra flessibilità e sicurezza, nonché quello di incentivare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro con politiche contributive che favoriscano i contratti a tempo indeterminato e che eliminino i differenziali di costi, e con percorsi per favorire l’utilizzo regolare dei contratti flessibili. Questi ultimi devono avere nella legge o nella contrattazione collettiva il fondamento riguardo alla loro legittimazione e alle possibili limitazioni quantitative del loro utilizzo, ed in ogni caso deve essere loro assicurata la fruizione di uguali diritti con i lavoratori “standard”. Non si può abbandonare il principio, stabilito nella Direttiva 70/99/CE, che il rapporto a tempo indeterminato è e deve restare il rapporto di lavoro tipico nei Paesi dell’Ue.
5) In base a quanto già argomentato, si deve provvedere legislativamente e contrattualmente affinché sia rafforzato il diritto al lavoro di tutti: ciò è possibile garantendo a tutti un sistema di ammortizzatori sociali in grado di combinare una tutela economica adeguata con un intreccio sempre più stretto con misure di politica attiva del lavoro, che devono però essere incardinate e perseguite in modo costante, ossia prima che si verifichi l’evento traumatico (ad es. politiche formative lungo tutto l’arco della vita, riqualificazione delle competenze e certificazione della loro acquisizione tramite canali formali, non formali e informali). L’esperienza italiana, caratterizzata fin dal 1997 da un’introduzione sempre più spinta di tipologie d’impiego “flessibili”, talvolta con minori costi e minori diritti rispetto al lavoro subordinato tradizionale, se da una parte ha visto un aumento dell’occupazione complessiva, dall’altra ha evidenziato un allungamento del tempo della transizione da impieghi precari a lavoro stabile, con forti rischi di permanenza in lavori non stabili, ed il conseguente condizionamento dei progetti di vita delle persone. Il bilanciamento che a detta legislazione sarebbe dovuto corrispondere tramite più elevati benefici per i disoccupati, si è rivelato impraticabile per difficoltà di allocazione di risorse. E pertanto il supposto trade off tra minore protezione del posto di lavoro e allargamento delle tutele nel mercato del lavoro si è rivelato fallace e funzionale soltanto alla riduzione delle sicurezze.
6) Come già detto, il valore degli investimenti in formazione è assolutamente importante e va favorito, senza tuttavia porre questi in alternativa alle tutele sul posto di lavoro. La formazione lungo l’arco della vita deve diventare un vero e proprio diritto, riconosciuto anche fuori del rapporto di lavoro, la cui esigibilità va garantita, per legge e/o per contratto, in termini di permessi, validazione delle competenze, finanziamenti pubblici. Vanno anche incoraggiate forme di gestione bilaterale. In particolare va curato l’accesso alla formazione di coloro che hanno bassi livelli di istruzione, dei lavoratori in età avanzata che possono avere una minore consuetudine a partecipare alla formazione, delle donne, con modalità che non ostacolino la conciliazione.
7) Il concetto di “lavoratore economicamente dipendente” potrebbe essere il fondamento per una definizione inclusiva del mondo del lavoro, superando i vecchi parametri di delimitazione del lavoro subordinato. Si potrebbero estendere per questa via a tutti coloro che si trovassero in condizione di dipendenza economica le tutele attualmente disponibili solo per i lavoratori subordinati in senso stretto, ottenendo in tal modo una effettiva inclusione nell’ambito del diritto del lavoro di tutte le forme lavorative fondate sul lavoro svolto a beneficio di terzi, anche se senza tutti i vincoli (ad es. orario e gerarchia) propri del lavoro subordinato tradizionale. Per questa via, le transizioni tra uno status e l’altro non sarebbero indotte da differenziali di diritti (e da vantaggi di costo), ma da genuine necessità organizzative e dalle libere volontà dai contraenti.
8) Come già detto, è assolutamente necessario prevedere un nucleo di diritti relativo alle condizioni di lavoro di tutti i lavoratori, ma è altrettanto necessario prevedere un nucleo di tutele uguali per tutti relative al mercato del lavoro (politiche attive, ammortizzatori sociali, formazione).
9) La legislazione italiana già prevede la corresponsabilità tra appaltante e appaltatore riguardo ai diritti salariali e previdenziali dei lavoratori in appalto, anche se l’esigibilità di questa norma non è sempre efficacemente esigibile. 10) Si, è necessario stabilire precisi diritti per i lavoratori impiegati dalle agenzie fornitrici di lavoro temporaneo. La legislazione italiana già prevede parità di trattamento, non discriminazione, corresponsabilità tra agenzia fornitrice e azienda utilizzatrice.
11) Si ritiene inaccettabile ogni peggioramento delle disposizioni attuali. Si ribadisce che l’orario, la sua durata, la sua articolazione, i periodi di riposo devono essere elementi portanti dell’attività contrattuale delle parti sociali a tutti i livelli (nazionale, di settore e di azienda), e che clausole individuali non possono essere peggiorative di quanto disposto collettivamente.
12) La definizione di lavoratore andrebbe definita a livello comunitario, fermo restando il vincolo di non regresso in caso di legislazioni più favorevoli o estensive.
13) La cooperazione amministrativa è assai importante, soprattutto nel caso di imprese che operassero utilizzando le norme sui distacchi o ricorrendo a pratiche elusive.
14) L’Ue dovrebbe assumere la lotta al lavoro nero come una delle priorità, anche al fine del recupero di base fiscale e contributiva dei Paesi membri, con conseguente maggiore rispetto dei parametri comunitari. A tal fine si dovrebbe innanzitutto giungere a metodi comuni di rilevazione dell’economia e del lavoro non dichiarato. Altrettanto importanti sono regole più stringenti in tema di scambio di informazioni sui controlli ispettivi e fiscali tra le amministrazioni nazionali. Nel campo delle politiche vere e proprie di contrasto al lavoro non dichiarato si deve porre maggiore attenzione all’inserimento delle condizioni di regolarità contributiva e del rispetto dei contratti collettivi tra i criteri di aggiudicazione di appalti da parte delle amministrazioni pubbliche nazionali e locali, condizionare i benefici contributivi per tutte le imprese alla regolarità dei versamenti contributivi, superare l’attribuzione di aiuti di stato al sostegno temporaneo alle imprese finalizzato all’emersione delle attività economiche irregolari.


un dibattito «necessario ma pericoloso»:
le preoccupazioni dei sindacati europei


Sui contenuti del Libro Verde e, più in generale, sul significato che esso ha per il mercato del lavoro europeo attuale e futuro abbiamo chiesto un parere a Walter Cerfeda, membro della segreteria della Confederazione europea dei sindacati (Ces).

Qual è la tua opinione sul Libro Verde e cosa pensi di questa iniziativa della Commissione europea?
Il Libro Verde rappresenta, al contempo, un grande bisogno che rischia di divenire però anche un’occasione mancata. Un bisogno per un problema generale e uno più concreto. Quello generale riguarda il mutamento strutturale del mercato del lavoro europeo. Cresce il tasso di invecchiamento della popolazione, si allunga fortunatamente la speranza di vita, mentre nel contempo il tasso di natalità rimane il più basso rispetto a tutti gli altri continenti del pianeta. Di conseguenza, cambia la composizione della forza lavoro in entrata, dove si affollano nuove generazioni sempre più di nazionalità extraeuropea, mentre tende ad allungarsi  l’età di uscita o a divenire più flessibile. A ciò si aggiunge il mutamento stesso delle frontiere del lavoro subordinato, che in alcuni settori diventa meno decifrabile rispetto al passato. Si pensi ad esempio a un settore come quello dei servizi e in particolare dei servizi privati alla persona, dove spesso la frontiera tra lavoro autonomo o dipendente diventa un’intercapedine molto sottile. D’altro canto, ed è la seconda ragione, questo mutamento è già in corso. I dati di cambiamento del mercato del lavoro europeo sono impressionanti. Se si prende a riferimento il periodo 2000-2005 la fotografia del cambiamento  parla da sola. Nel 2000 i lavoratori che nell’Ue a 25 (ma temo che i dati della Bulgaria e Romania ne aggravino solo la tendenza) avevano un contratto non a tempo indeterminato erano 66 milioni. Dopo cinque anni sono diventati 102 milioni. A questa cifra assoluta, che si riferisce essenzialmente alle tre più grandi famiglie del part-time, del tempo determinato e del parasubordinato, bisogna aggiungere più di 20 milioni di disoccupati oltre a una cifra di per sé incalcolabile riguardante il lavoro in nero. A ciò si aggiunga che la crescita rischia di divenire geometrica perché, specie nei nuovi Stati che hanno aderito all’Ue, l’assunzione di lavoratori con contratti non collettivi ma individuali di derivazione commerciale sono diventati la forma abituale per l’assunzione dei lavoratori.

A fronte di una simile situazione e in merito alle proposte del Libro Verde qual è la posizione dei sindacati europei?
Come detto, la necessità di un ammodernamento del diritto del lavoro europeo su questo tema risulta evidente. In particolare, come Ces abbiamo a più riprese segnalato due punti fondamentali. Il primo riguarda l’esigenza di una definizione legislativa europea di cosa sia oggi “lavoro dipendente”. Il lavoro autonomo ma economicamente dipendente si diffonde a macchia d’olio e fin qui ciascun Paese cerca di definirlo, o legislativamente o contrattualmente. Questa molteplicità ha bisogno di essere ricomposta in un quadro definitorio più preciso, che solo il livello europeo può garantire, anche al fine di definire le tutele e la platea precisa alle quali esso si deve riferire. Va da sé che questa definizione di lavoro deve contenere una clausola di non regressione, per impedire interventi “in pejus” rispetto a soluzioni più positive eventualmente già realizzate. L’altro punto riguarda invece la previsione degli standard minimi di tutele valide per tutti i lavoratori europei. Com’è chiaro, il nostro approccio è teso alla definizione di uno stock di diritti che devono essere esigibili in tutti i Paesi europei, al fine di evitare per questa via che la differenziazione delle tutele possa rappresentare la scorciatoia che molte imprese possono utilizzare per praticare il dumping sociale.
Questa soglia di diritti minimi deve evidentemente riguardare sia le politiche attive che quelle di sostegno al reddito e degli ammortizzatori sociali necessari per gestire la mobilità e tutelare al contempo i lavoratori.  

C’è un confronto con le associazioni imprenditoriali europee su queste problematiche?
Finora il confronto con i datori di lavoro è stato abbastanza deludente. D’altra parte, non è difficile comprenderne le ragioni. Rispetto all’impostazione fin qui descritta, il Libro Verde è per noi estremamente  deludente. Il documento della Commissione non si pone né l’orizzonte né l’ambizione necessari per far evolvere il diritto del lavoro. Tutto si riduce a un intervento non sui diritti delle persone bensì sulla fluidificazione del mercato del lavoro. L’approccio proposto è che l’Europa deve rimodulare le tutele se vuole aumentare la propria competitività. Dunque, tutto si riduce a rendere più elastico il licenziamento, ad accorciare i termini di preavviso e ad alleggerirne le procedure. È evidente che questo approccio è insensato, da un lato, ma anche socialmente molto  pericoloso, dall’altro. Un approccio però condiviso totalmente dalla nostra controparte, quindi gli spazi per un confronto serio si sono molto ridotti, anche se abbiamo mantenuto aperto un tavolo di confronto nella speranza di poter far maturare un loro avanzamento.
Siamo peraltro molto preoccupati di due aspetti impliciti nell’attuale Libro Verde, che senza un cambiamento potrebbero produrre guasti rilevanti. Il primo riguarda la sua filosofia implicita: se tutto si riduce a provvedimenti riguardanti le formule del licenziamento individuale è evidente che per questa via la tutela collettiva, e quindi il nostro ruolo sindacale, è quello che in realtà viene ad essere messo fortemente in discussione. L’altro aspetto è anche, a mio avviso, un enorme problema di prospettiva. Infatti, se il lavoratore percepisce di essere più solo e più debole, il suo rigetto verso il principio stesso di flessibilità può divenire molto forte. La flessibilità per essere accettabile non solo deve essere negoziata, ma deve contenere norme e tutele che garantiscano e diano sicurezza al lavoratore. La flessibilità senza la sicurezza è altra cosa. Far diventare ai lavoratori odioso il termine di flessibilità può indurre conseguenze sociali, e anche culturali, estremamente gravi.  

Che ruolo possono avere in materia le confederazioni nazionali e le categorie/federazioni europee?

Questa vicenda  del Libro Verde rischia di divenire rapidamente un punto molto forte di conflitto politico e sociale a livello europeo. Il forte spirito neoliberista che l’impregna, se non corretto durante la consultazione, potrebbe configurare questo atto similare alla vicenda della proposta di Direttiva “Bolkenstein”, sulla quale tanto abbiamo lottato negli ultimi anni. Per questo il livello del confronto non può rimanere circoscritto alle parti sociali europee. Le conseguenze che si determinerebbero negativamente sui diversi mercati del lavoro nazionali in seguito al mutamento di norme sul diritto del lavoro europeo, potrebbero essere dirompenti. È quindi necessario il coinvolgimento pieno di tutte le strutture, nella conoscenza prima e nelle iniziative poi che quasi sicuramente saremo chiamati a organizzare. La contemporaneità tra Libro Verde e Congresso della Ces certo ci aiuta molto, perché sarà proprio la nostra assise più solenne che sarà chiamata a esprimersi su questo punto. D’altro lato un forte pronunciamento congressuale, come mi auguro, avrebbe anche il valore di  non poter essere sottovalutato da parte di nessuno e tantomeno dalla Commissione.  

Come intende agire la Ces sugli sviluppi futuri del Libro Verde?
La nostra posizione è molto netta. Noi chiediamo una profonda rivisitazione dell’approccio che è stato proposto. Innanzitutto chiediamo che sia modificato l’indice degli argomenti. Se il solo argomento  è quello delle procedure dei licenziamenti, il confronto rischia di finire prima ancora di cominciare. Noi chiediamo che facciano parte integrante dell’agenda dell’iniziativa sia le politiche attive del lavoro, a partire dalla quantità e qualità di formazione permanente che si prevede come misura centrale per consentire non solo la mobilità, ma anche la riqualificazione professionale e la valorizzazione delle competenze, sia le politiche di accompagnamento a partire dalle tutele sanitarie e previdenziali e dalle misure di sostegno al reddito. Il capitolo degli ammortizzatori sociali diventa decisivo: d’altronde tutte le esperienze ci dicono che là dove il sostegno al reddito è consistente tutta la gestione dei flussi di mobilità diventa più governabile. È evidente che ciò comporta un onere rilevante per le casse pubbliche. Per questo le scelte fiscali s’intrecciano a doppio filo con questa discussione. Se la tendenza generalizzata resta quella della “flat tax” è ben evidente che lo Stato non potrebbe giocare il suo ruolo e che quindi i lavoratori sarebbero chiamati ad accettare una più forte elasticità di impiego oltre che di prestazione, ma senza avere il corrispettivo del diritto alla tutela e alla sicurezza.
Guai dunque a sottovalutare questa discussione. Il Libro Verde apre una delle pagine più necessarie ma anche più pericolose della nostra storia recente. Per questo il nostro approccio e la nostra vigilanza devono essere senza precedenti.

LA CES CHIEDE LAVORO DI QUALITÀ
La questione del “lavoro di qualità” è stata al centro di un incontro svoltosi a Berlino il 18 gennaio 2007 tra i partner sociali europei, la cosiddetta Troika sociale (i ministri del Lavoro e degli Affari sociali dell’attuale e delle prossime presidenze di turno dell’Ue, cioè di Germania, Portogallo e Slovenia), la Commissione europea, la Piattaforma sociale e il Parlamento europeo. In quell’occasione la Ces ha chiesto ai ministri del Lavoro di promuovere miglior occupazione e di contrastare la crescita del lavoro precario in Europa, anziché cercare di imporre la flessibilità a scapito della sicurezza dell’impiego e delle condizioni di lavoro. Apprezzando la decisione della presidenza tedesca di affrontare la questione urgente della qualità del lavoro in Europa, i sindacati europei si sono dichiarati disponibili a partecipare al dibattito sulla “flexicurity” ma solo se al centro del dibattito è posta la questione del lavoro sicuro e di qualità. Secondo la CES, infatti, la flexicurity deve portare benefici sia ai lavoratori che alle imprese.
I dati europei indicano un aumento del lavoro parziale e a tempo determinato, milioni di lavoratori part-time che non riescono a trovare un lavoro a tempo pieno, la maggior parte dei giovani costretta ad accettare contratti di breve durata. Per questo, la Ces ritiene che i responsabili politici europei devono tener conto del fatto che l’80% dei lavoratori considera la sicurezza dell’impiego come l’elemento più importante del lavoro di qualità. Inoltre, i sindacati europei hanno espresso la loro preoccupazione per un dibattito sul Libro Verde «oscurato dal problema della flexicurity che si concentra principalmente sulla diminuzione delle regole, cosa che crea una “giungla” di contratti di lavoro e facilita i licenziamenti anziché migliorare le condizioni di lavoro». I sindacati europei chiedono invece che contratti standard e protezione del lavoro restino la regola. I ministri europei sono dunque stati invitati a redigere un Rapporto comune sulla qualità del lavoro, da discutere durante la prossima presidenza portoghese in un dibattito generale sui principi comuni della flexicurity.

INFORMAZIONI: http:www.etuc.org